Attraverso colpi di scena e toni delicati, in “Io non ti lascio solo” Gianluca Antoni racconta i rapporti tra genitori e figli, le strategie imprevedibili con cui affrontiamo la perdita, ma anche la tenacia di legami fatti per sopravvivere al tempo, il tutto immerso in un’atmosfera da romanzo giallo – Su ilLibraio.it un estratto

Arriva un momento in cui l’ingenuità dell’infanzia lascia il posto alla crudezza del mondo adulto, con i suoi segreti e le sue scoperte. A Filo e Rullo, che hanno un carattere agli antipodi e che nonostante questo sono a dir poco inseparabili, succede nel momento in cui decidono di scappare da casa e di avventurarsi tra i boschi, alla ricerca del cane di Filo, che si è perso durante un temporale.

Per ritrovarlo si spingono fino alla cascina di Guelfo Tabacci, uno schivo montanaro di cui si mormora che anni prima abbia ucciso suo figlio, e a questo punto capiscono fino a che punto essere amici significhi affrontare insieme la paura e provare a superarla.

In un paesaggio dominato dal contrasto tra la luce dell’innocenza e il buio del dolore, Gianluca Antoni, psicologo e psicoterapeuta di Senigallia classe 1968, nel romanzo con cui ha vinto il torneo letterario IoScrittore e il premio Romics, intitolato Io non ti lascio solo (Salani, nuova collana Le Stanze) e di cui sono già stati venduti i diritti cinematografici, mescola le atmosfere del giallo a quelle del romanzo di formazione.

Molto tempo dopo la fuga dei ragazzini, infatti, nella cantina di quello stesso casolare vengono ritrovati due diari. Sono stati proprio i due amici a scriverli, consegnando a quelle pagine ingiallite la soluzione del mistero e il racconto, insieme crudo e poetico, di un’estate destinata a cambiare le loro vite.

L’autore, che ha già pubblicato Cassonetti (Italic peQuod, 2010), Il peso specifico dell’amore (Italic peQuod, 2012) e alcune guide per IlSole24Ore (come Realizza i tuoi sogni e Trova il tuo lavoro), attraverso colpi di scena e toni delicati racconta così i rapporti tra genitori e figli, le strategie imprevedibili con cui affrontiamo la perdita, ma anche la tenacia di legami fatti per sopravvivere al tempo.

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Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto del libro:

Maresciallo
ovvero
di quando Guelfo entra senza bussare e le buone maniere sono un optional

1.

Guelfo Tabacci irrompe nell’ufficio del maresciallo De Benedittis senza bussare, come se le buone maniere fossero un optional. Il brigadiere a corrergli dietro per trat-tenerlo e lui a inveire che avrebbe parlato solo con il maresciallo.

Si ferma in piedi, davanti alla scrivania. Un metro e novantacinque a occhio e croce, due spalle da boscaiolo e una barba lunga da Mangiafuoco.

«Gli ordini di togliere quel braccio e di uscire» fa, indicando Marazzi che gli tira la manica della camicia a scacchi.

«Qui gli ordini li do io» risponde secco De Benedittis. «Appunto» fa lui.

I due uomini si fissano per mezzo minuto buono, senza batter ciglio. Gli occhi neri dell’energumeno lanciano fiamme.

Infine il maresciallo fa un cenno al brigadiere. «Ci penso io».

«Maresciallo, se ci sono problemi, basta un fischio e arrivo con i rinforzi».

«Non ci saranno problemi, vero? Signor…»

«Tabacci, Guelfo Tabacci» e fa un cenno di assenso. «Prego. Si sieda».

«Preferisco di no».

Il maresciallo De Benedittis sospira. «Come vuole. L’importante è che non mi faccia perdere tempo».

«Non me lo faccia perdere lei, il tempo» ribatte. «È una questione molto urgente».

«Allora arrivi al dunque, e mi dica il motivo di questa irruzione».

«Mio figlio è sparito».

«Sparito?»

«Parlo forse russo?» fa lui, sbattendo il palmo sulla scrivania. «Stamattina mi sono svegliato e non c’era più».

Con un padre come lei, pensa il maresciallo. Per sicurezza preferisce non esternare il pensiero.

«Quanti anni ha suo figlio?»

«Due».

«Due?»

«Sì, due. È sordo?»

De Benedittis fa finta di non sentire. «A che ora se n’è accorto?»

«Alle otto circa».

Un’occhiata all’orologio sulla parete.

«E ha aspettato tutto questo tempo per fare la denuncia?»

«Non ho aspettato! Ho passato l’intera mattina a cercarlo. Ho setacciato tutta casa, il cortile, i campi. Il pozzo».

«Cinque ore per accorgersi che non si era nascosto?» domanda visibilmente perplesso.

Guelfo Tabacci sbuffa e legge il cartellino con il nome sulla scrivania. «Maresciallo De Benedittis, sa che le dico? Vada a fare in culo, lei e tutta l’Arma. Mio figlio lo trovo da me!»

Si volta e scatta verso la porta.

«Signor Tabacci!» urla il maresciallo. «Si fermi!»

Lui alza il braccio in modo eloquente. Sbatte la porta alle spalle. La cornice con la foto del Presidente della Repubblica precipita a terra. Rimane in bilico qualche secondo, per poi schiantarsi a faccia in giù.

2.

Il maresciallo chiama Marazzi e gli ordina di trovare l’indirizzo di Tabacci.

«So dove abita» fa lui. «Giù nella valle».

«Lo conosci?»

«Di fama».

«Va bene. Portami da lui e raccontami quello che sai». In macchina Marazzi dice di sapere poco o niente, di averlo incrociato solo qualche volta alla drogheria di Clara.

«È un montanaro scorbutico. Uno di poche parole. Non saluta nessuno. Vive solo con il figlio piccolo dopo che la moglie lo ha mollato».

«E ha lasciato il figlio a un tipo così?»

Marazzi alza le spalle. Guida concentrato lungo la stretta strada ghiaiosa. «Maresciallo, che dire? La gente non finisce mai di stupire».

De Benedittis osserva i girasoli impettiti, a testa alta verso il sole. Quelli lungo la carreggiata sono solo leg-germente imbiancati di polvere sebbene non piova da settimane.

La discesa termina di fronte al cancello di ferro di un casolare circondato da un muro di cinta.

Scendono dall’auto. Marazzi slaccia la fondina della pistola di ordinanza e accenna a tirarla fuori.

«Che fai?»

«Ha visto il cartello? Meglio essere previdenti».

«Rimettila dentro».

«È lei il capo» fa lui poco convinto. «Suono?» Un’occhiata di assenso. Nell’attesa il maresciallo sbircia tra le inferriate. Porte e finestre sono spalancate. Un cucciolo di dobermann corre verso il cancello. Abbaia, saltella e si rigira su se stesso.

Guelfo Tabacci compare sulla soglia. «Fa’ la guardia, Diablo, non sei una foca da circo!» urla al cane. Si avvicina, gli sferra un calcio. Il cucciolo guaisce a scappa via.

«Andatevene» dice ai due carabinieri.

Il maresciallo stringe i pugni e fa appello al maestro Zen che da qualche parte si annida dentro di lui.

«Signor Tabacci, siamo partiti male…»

«Malissimo!»

«Ma possiamo rimediare».

«Come?»

«Collaborando».

Guelfo Tabacci aggrotta la fronte, inspira profondamente. Nel silenzio che segue si sentono gli ingranaggi del suo pensiero.

Infine apre il cancello e si avvia dentro casa. I due uomini lo seguono.

Li accompagna al primo piano, nella camera da letto del figlio.

Indica il lettino bianco con le sponde, disfatto.

«Quando sono venuto a svegliarlo, Tommaso non c’era» dice.

«Riusciva a scavalcarlo?»

«Sì, non da molto. Più volte me lo sono ritrovato fuori casa. Se si svegliava presto veniva a cercarmi. Aveva imparato dove trovarmi».

Osservano la stanza. Molto scarna. Un fasciatoio col materassino di gomma azzurra. Sopra, un pacco aperto di pannolini, un asciugamano stropicciato e alcuni tubetti di creme. Di fianco alla finestra un vecchio comò e nell’angolo un cesto pieno di giocattoli di plastica e di pupazzetti di peluche.

«C’è un posto dove possiamo sederci?» chiede il maresciallo.

«Seguitemi».

Tabacci li porta in cucina. La testa di un cinghiale imbalsamato campeggia sul caminetto.

De Benedittis lo indica. «L’ha ucciso lei?»

«E chi sennò».

«Ha un porto d’armi registrato per il fucile?»

«Cosa vuole insinuare? Che ho ucciso mio figlio?» Il maresciallo sospira. Il tipo ha la coda di paglia.

Decide di lasciar cadere il discorso, per il momento. Meglio andare oltre, se vuol cavare qualche ragno dal buco.

Si siede al tavolo, Marazzi lo imita. Tabacci di fronte. Il maresciallo tira fuori il bloc-notes e la matita.

«Signor Tabacci, partiamo dall’inizio e ci racconti tutto ciò che può essere utile alle ricerche».

L’uomo prende fiato. Racconta che alle sei, quando si è alzato, il figlio dormiva tranquillo, come sempre. Come ogni mattina è sceso per le faccende consuete: innaffiare l’orto, dar da mangiare ai maiali, ripulire i box dei cani da caccia. Verso le sette e mezzo è risalito, ha preparato la colazione per lui e il figlio ed è andato a svegliarlo.

«E non c’era!» conclude scuotendo la testa.

«Cosa ha fatto?»

«L’ho chiamato, prima piano poi a gran voce, e intanto ho iniziato a cercare prima dentro casa, e poi fuori in giardino. Quando lo chiamavi lui rispondeva sempre…»

«Rispondeva?» sottolinea il maresciallo.

«Risponde…» si corregge l’altro, «quando lo chiami lui risponde sempre. Oggi non l’ha fatto. Mi sono allarmato e ho messo sottosopra la casa. Ho controllato in ogni angolo del cortile, garage, porcilaia e tutti gli annessi, ma di lui nessuna traccia».

«Il cancello era chiuso?»

«Sì, ma Tommaso è abbastanza piccolo da passare tra le inferriate».

«Ha cercato fuori?»

«Certo. Lungo l’intero muro di cinta».

«Potrebbe esserci qualche motivo per cui suo figlio ha deciso di nascondersi, che so, lei lo ha sgridato o punito per qualcosa?»

«No. Il nostro rapporto è ottimo. Lui mi vuole bene, e io altrettanto».

«Per colazione aveva apparecchiato il tavolo?»

«Che domanda idiota! Cosa c’entra con la sparizione di mio figlio?»

«Risponda».

Tabacci aggrotta la fronte. «Certo, che diavolo!»

«Ora qui tutto è in ordine» gli fa notare il maresciallo con un ampio gesto del braccio. «Ha sparecchiato».

«E con ciò?»

«Lo trovo strano, tutto qui. Trovare il tempo di sparecchiare in un momento del genere».

«Mi aiuta a pensare» risponde brusco.

«Cosa ha preparato a colazione?»

«Caffè, latte, pane, burro e marmellata, e due uova sbattute».

De Benedittis nota la moka sul fornello. Va a controllare. Vuota. «Vedo che il caffè lo ha bevuto».

«Lo avevo versato nella tazza che ho lavato».

Il maresciallo apre lo sportello sotto il lavandino, fruga nell’immondizia.

«Non ci sono gusci d’uovo» commenta.

«Li ho dati ai maiali».

«Ha avuto anche il tempo di portare i gusci ai maiali».

«Cosa vuole insinuare, maresciallo, che sia io il responsabile della scomparsa di mio figlio?»

«No, signor Tabacci, voglio eliminare dalla mia testa questa possibilità».

«Allora lo faccia alla svelta, perché sta perdendo tempo». Si alza, va alla finestra, sfila dalla tasca della camicia il pacchetto di sigarette e ne accende una.

«Se non è lei il responsabile della scomparsa, chi può esserlo?» chiede il maresciallo.

Lui espira una lunga nuvoletta di fumo grigiastro.

«La madre».

«Perché dovrebbe farlo?»

«Perché rivuole suo figlio. Anche se gli accordi glielo impediscono».

«Quali accordi?»

Tabacci si sposta al tavolino di fronte al divano. Prende un posacenere carico di cicche e spegne la sigaretta.

«Lei ha voluto andarsene» dice con tono di rabbia.

«Ha firmato davanti all’avvocato che mi lasciava Tommaso».

«Era la condizione che le ha posto per ottenere la separazione?»

«L’unica. Rinunciava a ogni diritto su di lui. Anche di vederlo».

«Ha una copia del documento?»

«Sì, da qualche parte. Ma non mi chieda di cercarlo ora».

Il maresciallo non insiste. La priorità è incominciare le ricerche prima del tramonto.

«Quando avete firmato l’accordo, signor Tabacci?»

«Un anno e mezzo fa, circa».

«E in questo periodo, la sua ex moglie ha chiesto del figlio?»

Ha chiamato un paio di volte, supplicandomi di far glielo vedere. Dieci giorni fa invece me la sono trovata al cancello».

«E glielo ha fatto vedere?»

«Neanche con il binocolo».

«Perché?»

«Perché è un’ingrata».

«È la madre, però» interviene Marazzi.

«Se davvero lo fosse, non se ne sarebbe andata» risponde secco. «Ora basta parlare. Trovate Tommaso».

(Continua in libreria…)

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