Chi sono “Le cattive”? Sono donne trans, donne che si prostituiscono, che si alleano, che lottano, amano e subiscono le peggiori violenze. Camila Sosa Villada crea un’opera di autofiction che si innerva sulla tradizione letteraria sudamericana e offre al lettore un libro totalmente originale, oltre che radicale e incisivo per la sua portata politica

Finalmente SUR ha pubblicato Le cattive di Camila Sosa Villada, grazie all’ottimo lavoro di traduzione di Giulia Zavagna.

È stata un’attesa lunga e piena di aspettative, cresciuta sulla scia dell’entusiasmo diffusosi in Europa all’apparire delle varie edizioni e confermato di volta in volta da una pioggia di recensioni entusiaste in cui si parlava di Villada come di una delle nuove voci argentine più interessanti del momento.

In questi giorni se ne è parlato molto, e forse un ulteriore articolo sul pregio di questo libro potrà risultare superfluo, ma ogni lettura è una lettura a sé, quindi ci uniremo anche noi al coro dei recensori entusiasti.

Copertina del libro Le cattive

Chi sono Le cattive di Camila Sosa Villada? Sono donne trans che popolano Parco Sarmiento a Córdoba, donne che si prostituiscono, che si alleano, che lottano, amano e subiscono le peggiori violenze. Sono donne che combattono contro una società che ancora fa del marchio biologico un’imposizione di ruolo, donne che cercano di liberarsi e per questo si ribellano resistendo.

Il romanzo è narrato adottando prevalentemente il punto di vista di una donna che Camila tratteggia a partire dalla sua esperienza personale di donna trans, prostituta e studentessa, ma narra le vicende di un’intera comunità. Lo fa a partire dal misterioso ritrovamento e “adozione” di un bambino abbandonato tra i rovi al limitare del parco in cui le donne si prostituiscono e segue le avventure e disavventure di cui queste donne sono protagoniste e vittime nei loro vari incontri con la “violenza”, rappresentata tanto dagli uomini che vengono in cerca di sesso quanto dallo Stato che cerca di dissipare la comunità, trasformando il parco in un luogo sempre più controllato.

Sosa Villada crea un’opera di autofiction che si innerva sulla tradizione letteraria sudamericana e offre al lettore un’opera totalmente originale, oltre che radicale e incisiva per la sua portata politica. Prima di tutto grazie al ricorso ad alcuni tocchi tipici del realismo magico, come la trasformazione di una delle donne trans in uccello (con tanto di piume che spuntano e gabbia a fine racconto), l’opera sposta l’equilibrio tra finzione e realtà tipico dell’autofiction in un territorio più indefinito, uno dove la dimensione finzionale non è solamente quella degli eventi non verificabili, ma anche quella degli eventi che nel mondo come lo conosciamo noi non potrebbero realizzarsi, e in questo rinnova in maniera originale quel genere spiazzante e disorientante che è il weird. In secondo luogo, e questo è forse il pregio più grande di questo romanzo, offre un ritratto onesto e potente della comunità di donne trans argentine, senza cedere al rischio di una narrazione vittimista e di solo abuso, ponendo piuttosto l’attenzione sulla reclamazione della propria identità, problematizzandola da un punto di vista socio-economico.

Non passano infatti inosservati il rapporto tra classe e ruolo sociale e la critica a un sistema – quello capitalista neoliberista – in cui la finta retorica della libertà di usare il proprio corpo si intreccia necessariamente con le limitazioni imposte dall’estrazione sociale.

Così Camila racconta, attraverso la voce narrante che allo stesso tempo è e non è lei, che, per quanto possa scegliere di non usare il corpo per guadagnarsi la vita, alla fine per donne come lei – trans nate in una classe sociale disagiata – spesso questa non è che l’unica via concessa loro per emanciparsi. Per quanto sia Camila sia la protagonista di Le cattive studino all’università, a donne come loro, continuamente discriminate e punite per il desiderio di essere se stesse spesso non rimane che usare il proprio corpo per sostenersi. Quel che viene messo in discussione qui però non è la scelta del lavoro sessuale, quanto piuttosto la libertà di poterlo fare volontariamente.

In quest’ottica la riflessione di Villada diventa importante e problematica, perché non solo fornisce una rappresentazione onesta di una comunità costantemente messa sotto tiro, che pur continua a trovare in sé la forza di reagire con autoironia creando forme di supporto alternative basate su sorellanza e solidarietà, ma anche perché permette di ragionare sul perché queste comunità si trovino spesso a vivere ai margini e nel buio. Dietro alla donna trans orgogoliosa si intravede infatti il lato oscuro di una società che, anche dichiarandosi sempre più inclusiva e attenta alla diversità, di fatto continua a imporre sui corpi un prezzo per la loro libertà.

Villada racconta un pezzo della propria vita e quello di tante donne che come lei si trovano a dover negoziare ogni giorno non solo la propria libertà con un mondo che gliela rifiuta continuamente, ma anche i propri desideri. Desideri che passano in larga parte attraverso il corpo. Se il corpo è infatti il mezzo che Villada e compagne usano per imporre la propria identità, questo stesso corpo è anche ciò che le rende vulnerabili, perché costantemente reclamato e disdegnato da chi lo vuole comprare o da chi non lo comprende.

Quello di Villada è dunque un romanzo dove dominano la luce della solidarietà e l’oscurità della violenza, un romanzo a cui difficilmente si può rimanere indifferenti, dominato da passaggi di rara bellezza, ma anche di profondo dolore.

“In realtà siamo creature notturne, perché negarlo. Non usciamo durante il giorno. I raggi del sole ci debilitano, rivelano le indiscrezioni della nostra pelle, l’ombra della barba, i tratti indomabili degli uomini che non siamo. Non ci piace uscire di giorno perché le masse insorgono di fronte a simili rivelazioni, ci scacciano a suon di insulti, ci vogliono legare e appendere in piazza. Il disprezzo evidente, la sfacciataggine di guardarci e non vergognarsi affatto.

Non ci piace uscire di giorno perché le signore della buona società, le signore fresche di parrucchiere, con i loro cardigan di filo sottile, ci denunciano perché diamo scandalo. Ci indicano con le loro dita da arpie e ci trasformano in statue di sale, prossime al crollo, a vedere la valanga delle nostre cellule sparpagliate come perle di una collana strappata di colpo.

Non ci piace uscire di giorno perché non ci siamo abituate, perché è impossibile abituarsi alla gabbia delle loro regole. Meglio restare a letto, chiuse nelle nostre stanze, a guardare telenovelas o a non fare nulla. Non fare nulla durante il giorno, cancellarsi dalla mappa della produzione, ecco cosa facciamo”.

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