“Rimango paralizzata davanti alle nuove manifestazioni di odio e di insofferenza nei confronti di chi è diverso da noi…”. Su ilLibraio.it la riflessione di Margherita Loy, in libreria con “Una storia ungherese”

Spesso mi sono chiesta quali fossero state le avvisaglie, le piccole spie appena percettibili, gli accenni fugaci, i silenzi diffusi, frutto di censura o di menefreghismo, i plateali segnali che volavano nell’aria prima delle catastrofi della nostra Storia. C’era stato, oltre ai politici, qualche scrittore che aveva individuato, prima degli altri, la pericolosità di proclami propagandistici, la minaccia alla pace che strisciava in certa indifferenza o nell’allegra irrisione diretta contro ogni tentativo di riflessione e di dialogo? C’erano stati narratori che avevano lanciato l’allarme?

Forse, i poeti? Loro sono veggenti; sì, alcuni avevano toccato quasi alla cieca, sbattendo nel buio, il futuro che stava per travolgere la loro nazione, portandola verso la catastrofe.

La stessa mia domanda sulle avvisaglie della catastrofe se la pone Kinga, la giovane protagonista della mia storia, chiusa in cantina mentre infuriano i bombardamenti su Budapest nel 1945.

Ma come Kinga, neanche io ho trovato una risposta.

Simile a lei, cerco oggi di fare attenzione ai segnali, più o meno velati, del cambiamento di clima politico e civile, e, come lei, rimango paralizzata davanti alle nuove manifestazioni di odio e di insofferenza nei confronti di chi è diverso da noi. E so che quell’odio, come nel mio romanzo, non può che sfociare in una società violenta, e, infine, in una guerra. Eppure non faccio niente. Scrivo e basta. Proprio come fa Kinga.

In Una storia ungherese ho raccontato anche una vita pacifica che la protagonista ripercorre nel diario che viene scrivendo giorno dopo giorno durante il lungo assedio. Perché la scrittura può aiutare il ricordo e renderlo vivo e presente, anche quando c’è una guerra e la fame sfinisce. E Kinga torna agli anni trascorsi insieme alla nonna in una remota contea ungherese e così ripercorre i momenti di passione trascorsi con il giovane ebreo, di cui è ancora innamorata. E allora la paura svanisce, la fame si dimentica, torna la speranza. E con essa la possibilità di ritrovare un senso e di toccare di nuovo la propria umanità.

Nel mio romanzo racconto dunque di un’epoca che non ho vissuto, di un paese che non è il mio. Quando l’ho terminato, sapevo che esisteva il rischio che, nonostante le ricerche, il racconto presentasse imprecisioni storiche o inverosimiglianze. Per questo, la lettera di Judit Kepes, che qui cito in parte, mi ha confortato.

Noi non ci conosciamo. Ho chiesto il tuo indirizzo alla casa editrice perché ho appena letto il tuo libro e mi ha toccato molto… Sono una fotografa ungherese ma vivo a Roma da diversi decenni ormai (o meglio tra Roma e Budapest, sono un po’ divisa tra queste due città). Tre giorni fa sono capitata a Capri dove tra le migliaia di boutique all’improvviso ho scoperto con sollievo una piccola libreria e dentro il tuo libro che con il suo titolo ha richiamato la mia attenzione. L’ho preso e l’ho letto tutto d’un fiato con grandissimo interesse e piacere.

Io sono nata a Budapest nel 1950 ma i miei genitori erano giovani durante la guerra e l’assedio […] e a dire il vero prima di leggere questo libro non ho mai pensato a come potesse essere per loro questo periodo, semplicemente non mi ponevo il problema… Ora tutto è diventato palpabile.

Sapevo che mio nonno paterno era ebreo per cui doveva nascondersi. Per questo motivo durante i bombardamenti, quando tutti gli inquilini del palazzo scendevano nel rifugio, lui restava solo nel loro appartamento. Mia nonna, invece, era figlia di un pastore protestante, così anche mia mamma risultava non ebrea e loro passavano i tempi critici nel rifugio. Dopo la liberazione mio nonno è morto […]. Così io non l’ho mai conosciuto.

Mio padre invece era ebreo e con mia nonna si nascondevano all’Ambasciata americana perché abitavano nello stesso palazzo […].

Tutto questo per dirti che nessuno mi ha mai raccontato nulla dei tempi della guerra e dell’assedio. Mia madre e mia nonna materna avrebbero potuto farlo ma non l’hanno mai fatto.

La ricostruzione dei luoghi è tanto precisa che io immaginavo tu fossi di origine ungherese, mentre dalla Nota sembra di no. Se è così, se sei italiana è ancora più sorprendente la tua capacità di immedesimazione in questo mondo lontano. […]

Cara Margherita, grazie ancora, spero un giorno di conoscerti,

Judit”

Ed allegava alla lettera questa bella fotografia di sua madre.

Questa è mia mamma con un disco di Bach e il Ponte Elisabetta alle spalle, nel 1945 a Budapest ©

Spero che la storia di Kinga possa toccare corde profonde anche per il lettore italiano; vorrebbe dire che nel mio piccolo ho scritto qualcosa che non discrimina, non conosce confini, differenze; qualcosa in grado di parlare a tutti.

 

Una storia ungherese

L’AUTRICE – Margherita Loy è nata a Roma nel 1959 e vive nella campagna lucchese. Ha scritto alcuni libri per bambini, tutti pubblicati da Gallucci Editore. Una storia ungherese (Atlantide) è il suo esordio narrativo. La trama ci porta nel gennaio 1945. In un mondo in cui la gente improvvisamente si è scoperta razzista, accecata dall’odio, assetata di violenza, Kinga, vent’anni, rifugiata in una cantina di Budapest, scrive. Scrive perché tornare con i ricordi nella casa di campagna in cui ha vissuto insieme alla nonna diventa ora l’unica forma di libertà. Scrive perché il suo amore per il giovane ebreo Gyalma le permette di essere di nuovo al piccolo lago ai confini del mondo e rivivere attimo per attimo la passione. La fame, quando la penna scorre sul suo diario, si allontana. Gli odori e la paura, si dileguano…

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