Paolo Lanaro parla di Luigi Meneghello (nella foto di Andrea Lomazzi, ndr), del legame con la proprio terra e del rapporto con il dialetto. Per l’autore di “Libera nos a Malo”, infatti, “il dialetto portava dritto al fondo della cosa, forse addirittura al nodo ultimo di quella che si chiama vita…”

ANTE LITTERAM *

Un bambino prodigio. Cresciuto in mezzo a carburatori, pistoni, pneumatici, giunti, pignoni, con una passione
divorante per le parole e i concetti. Un bambino che appena arrivato in prima elementare, con una scrittura ancora vacillante, manda una lettera alla madre e le chiede di fargli avere un uccillino per copiarlo. Perché un uccillino? Lo voleva perché i bambini, come ha spiegato Gerald Durrell, vivono meglio se hanno intorno qualche animale. Ma poi lo voleva anche perché era un po’ stufo di tutte le creature dipinte che aveva incontrato nei libretti che sfogliava fin da piccolissimo. Conosceva un bel po’ di animali, ma si rendeva conto confusamente che si trattava di una conoscenza astratta, inefficace. I pesci dei libri non nuotano, i cani con zampettano, gli uccillini non volano. Questa dell’uccillino era una bella storia. Lui aveva sempre detto oseleto, i suoi amici dicevano tutti oseleto, anche il vecchio professor Zambon diceva oseleto: e dunque? Invece si comincia a scrivere e succede che l’oseleto sparisce, sostituito da un uccellino. Anzi da un uccillino. Ma tra i due la differenza è grande come l’abisso. Non è una sproporzione rispetto alla taglia o al piumaggio o al verso. È che il primo è poco più che uno scalzacane: non sa niente di niente, non conosce le poesie, non entra nei dettati e nei pensierini. L’unica cosa che si può dire è che è vivo. Mentre l’uccellino si dà un gran da fare: è presente nei libri, annuncia la primavera, cinguetta sulle finestre, saltella tra le siepi.

Solo che ha l’occhietto un po’ vitreo, cioè è irrimediabilmente finto. Il bambino forse non aveva la percezione
esatta del fatto che uno viveva nei vocabolari e l’altro nell’orto, ma in qualche modo lo sospettava. Il suo sforzo di ridurli a un unico esemplare è immane e passa attraverso ripetuti esercizi di scrittura che però lasciano le cose
come sono. Le pagine dei quaderni si riempiono di uccillini, uccielini, ucellini, ucelini, ma l’uccellino sembra imprendibile, un alato esserino dispettoso, e forse anche un po’ presuntuoso, che guarda dall’alto al basso, orgoglioso della propria purezza morfologica. Il bambino capiva che la lingua parlata è un’altra cosa rispetto a quella scritta. Una viene fuori fluida e schietta come il latte materno, l’altra è una costruzione paziente, un po’ come fare le parole incrociate: ti danno una definizione e tu devi trovare  il nome giusto.

È maggio. Api, calabroni, bài, ave somiglianti a streghe minuscole e striate, e tantissimi oseleti. Il bambino, appostato in orto, segue gli svolazzi, avverte il dilatarsi dello spazio e del tempo, vede la dolorosa occlusione dei muri oltre i quali c’è forse qualcosa di definitivo. Quando sarà grande ci tornerà sopra a queste cose. Intanto bisogna cercare in tutti i modi di impadronirsi delle parole. Questa è l’unica maniera, si convince, per dare un po’ di precisione a quello che gli succede intorno e per catturare finalmente quei maledetti, fottuti, uccellini.

Se la realtà, pensò Meneghello, è come un paesaggio, tutto sta nel trovare il modo per conoscerlo il più possibile. Alcuni vorrebbero saltare gli steccati della razionalità e vedere tutto in un colpo solo, come succede ai mistici. Niente passi metodici come nella scienza, ma l’andatura spezzata e prodigiosa del visionario che da un minimo dettaglio riesce a ricavare una conoscenza totale. Fìdati dei mistici, pensava Meneghello, ravvisano tutto ma non ti raccontano un bel niente. E allora che conoscenza è, se non è divulgabile? A dire la verità era rimasto un po’ turbato quando si era imbattuto in quel Wittgenstein che ormai tutti celebravano, non solo in Inghilterra, ma in tutta Europa, come un filosofo geniale. Wittgenstein, che era un logico di prim’ordine, aveva detto che quando parliamo esprimiamo dei pensieri che hanno a che fare con ciò che il mondo è. Però, aveva aggiunto Wittgenstein, quello è anche il nostro limite, oltre il quale c’è qualcosa che si mostra ma non si può dire: il silenzio
che a un certo punto cala, aveva sostenuto, si trascina dietro l’ombra del mistico. Meneghello, che aveva nuotato a lungo nella grande vasca idealistica, aveva sempre ritenuto che la realtà è comprensiva di tutto: pensiero, parole, cose. Aveva letto appassionatamente quell’inglese, Collingwood, secondo il quale tutto è coerente e coeso e non c’è affatto un movimento del pensiero verso la realtà, per il semplice motivo che la realtà lo contiene come propria espressione. Come si poteva pensare che ci fossero dei margini che invece restano oscuri e che la logica non è in grado di percorrere? Meneghello riandò con la memoria a qualche decennio prima, alla sua infanzia trasparente
come un vetro, ai primi anni di scuola quando lo sforzo di conoscere è intenso come dopo non lo sarà mai più. Allora il problema era passare dal parlato allo scritto senza farsi troppo male. Ma forse, si disse, c’era in gioco qualcosa di ancora più decisivo a cui non era facile dare un nome. Non era dunque solo la questione di raddrizzare le gambe a una frotta di onesti grafemi, eliminando pance, ernie e sbavature varie. Si trattava di una faccenda che andava ben oltre: cosa succede dentro la testa che fa diventare parole, e poi concetti, le sensazioni? I filosofi sono sempre stati evasivi su questo, pensava.

Va bene, prima le sensazioni, poi il turrito e imponente castello delle idee. Ma chi è che lo tira su? Da bambino
aveva avuto modo di osservare da vicino come un bruco diventa pupa e poi farfalla: è così anche per le idee? C’è, anche per loro, una condizione pupale e prima ancora uno stato brucoide? Non si sa. Ricordò il dolore quasi fisico nel cercare di toccare le nervature profonde a cui conducono parole come basavéjo o anguàna. Era il
dialetto a provocare certe inquietudini, non l’italiano. Il dialetto portava dritto al fondo della cosa, forse addirittura al nodo ultimo di quella che si chiama vita. Perché il dialetto? Perché, pensava Meneghello, lì il significato sembra coincidere con la forma della parola. Il dialetto è così vicino alla natura che sembra uscire da una sua misteriosa gravidanza. Ogni tanto si chiedeva se sotto sotto il suo non fosse rimasto il punto di vista di un bambino che, entrato nel mondo delle parole, si stupisce grandemente come davanti a un bizzarro museo delle meraviglie. Canevassa, moscaróla, fotón, sbiansaóro, sfriso, cógoma, buànse, squarquara… E i nomi ( e i soprannomi) delle persone: Loba, Ciucia, Ioldo, Maia… E quelli degli animali: liévore, sioramàndola, lìpara, sarànto… Contatti inebrianti con un mondo che baluginava come una lontana collina tutta di oro zecchino. Restava il problema: come trasportare quelle parole in italiano? E anche ammesso: il significato grosso modo era lo stesso, ma i suoni, che nella parola dialettale aderivano alla cosa e viceversa, in italiano andavano a farsi benedire. Salvo che, pensava Meneghello, uno non volesse sostenere che l’innaffiatoio e il sbiansaóro erano la stessa cosa. Erano sì la stessa cosa, ma non proprio.

Malo per decenni era rimasto più o meno uguale: il Liston, la Cavallerizza, il Castello, la Giassàra, il tanfo delle filande, gli odori autunnali del mosto e dei pomi, la deliziosa pace notturna, l’ineguagliabile oziare verso mezzodì seduti in Piazzetta al bar da Franco. Poi ad un tratto tutto comincia a correre: si vedono sfrecciare automobili mai viste prima, sorgono ville eleganti e palazzine un po’ sciatte, si modifica il disegno urbano, si modificano i rapporti coi luoghi e quelli tra le persone, i bambini indossano calzoni corti che arrivano al ginocchio come quelli inglesi. Questa roba si spazza via, trionfa un rigoglio banale e potente.

Gigi Meneghello tornava da Reading e ogni volta trovava qualche novità. La cosa un po’ lo confortava sulla capacità dei suoi compaesani di adeguarsi ai tempi, ma un po’ lo scombussolava. Sacranón! Se ne sta andando tutto, pensava: campi, fossi, strade, piante, tezze, ponti, stròsi. E le sìsole, e le dùdole, e la ùa? Tra poco, se non lo sono già diventate, saranno le nostre madeleines, diceva a Katia. Katia annuiva, ma Gigi sentiva che quella consapevolezza spasmodica del passato non bastava. Ci voleva altro. Tutte quelle pagine di appunti sui modi di dire, sul lessico, sulle forme grammaticali e soprattutto sulle stravaganze dei suoi compaesani dovevano approdare a qualcosa di diverso da un semplice Regesto Chartarum Maladi. Guardando il verde tardo-estivo del sorgo e le chiome un po’ fruste dei ciliegi, ebbe la percezione repentina che il còmpito fosse proprio quello di evitare che il tocco viscido della morte estinguesse del tutto un capitolo significativo di storia italiana. Si trattava di trovare il punto esatto di attacco e poi di proseguire a fàto, come avrebbero detto Mino o Guido, cioè fino in fondo. E poi, dietro o davanti a tutto questo, c’era ancora la vecchia, fondamentale questione tante volte girata e rigirata: come avviene il passaggio dalla sfera dello sperimentare aspetti del mondo a quella del parlarne? Sentiva le sgrísole salire su per tutto il corpo, inondare il costato e le braccia e arrivare in febbrile caterva al servèlo. Finché una sera, dopo tuoni assordanti e scrosci violenti di pioggia, dentro un improvviso e quasi stregante silenzio della casa dov’era nato, Meneghello abbandonò ogni remora. Diede un’occhiata fuori: il palazzo del Conte era là, fermo nella sua solitudine. La Casa Bianca sembrava godersi il timido chiarore lunare che improvvisamente era apparso. Pareva un piccolo teatro. Allora fissò il pennino Mitchell al canotto e cominciò a scrivere. Il libro ce l’aveva tutto in testa già da un sacco di tempo.

Paolo Lanaro

Il brano che riproponiamo per gentile concessione dell’autore, è tratto dalla raccolta di saggi La città delle parole – Scritture nel Novecento vicentino (Cierre edizioni).
Paolo Lanaro, nato a Schio nel 1948, vive a Vicenza. Ha insegnato filosofia nei licei e ha pubblicato sei raccolte di versi: L’anno del secco (Savelli, 1981); Il lavoro della malinconia (La Locusta, 1989); Luce del pomeriggio e altre poesie (Scheiwiller, 1997); Giorni abitati (Ripostes, 2002); Diario con la lampada accesa (Edizioni del Bradipo, 2005). La sua penultima raccolta, Poesie dalla scala C (L’Obliquo, Brescia, 2011) è stata finalista al Premio Viareggio 2011, al Premio Diego Valeri 2012 e ha vinto il premio Contini Bonacossi 2012.
E’ da poco stata pubblicata da Marcos y Marcos la sua ultima raccolta di liriche, Rubrica degli inverni (qui i particolari e alcune poesie).
Lanaro ha inoltre curato l’antologia Forme del mistico (1988) e nel 2007 ha dato alle stampe In tondo e in corsivo, un’antologia di saggi e interventi critici su scrittori veneti del ‘900.

nota: la foto in alto è di Andrea Lomazzi

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