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Idealizzati, svalutati, inconoscibili: ecco i “Padri” di Giorgia Tribuiani

Giorgia Tribuiani

“Naturalmente nella realtà – così conclude la Lettera al padre Franz Kafkale cose non possono essere calzanti come gli esempi della mia lettera, la vita è più che un gioco di pazienza; ma con la correzione che deriva da questa impostazione, correzione che né posso né voglio sviluppare ancora nei dettagli, si è secondo me raggiunto un qualcosa di così vicino alla verità che un pochettino può tranquillizzarci entrambi e renderci più facile il vivere e il morire”.

Negli anni, fin dalla prima volta che mi sono approcciata a questo testo, così privato ma – come fa notare Andrea Pomella nel romanzo I colpevoli – così intriso della consapevolezza letteraria dell’autore da risultarne evidentemente influenzato, ho continuato a meditare sulla chiusura della Lettera, così come non ha smesso di risuonare dentro di me l’immaginazione kafkiana del padre come abitante di “un mondo lontanissimo”. A colpirmi, soprattutto la prima frase: “nella realtà le cose non possono essere calzanti come gli esempi della mia lettera”.

Perché in che modo – mi sono chiesta – grazie a quale operazione riusciamo a vedere i nostri genitori, i nostri padri, se non unendo i puntini offerti dalla nostra esperienza con loro, rinunciando alla realtà troppo magmatica e complessa dei fatti per provare a raggiungere, attraverso il collegamento degli esempi scelti, una nostra verità? E quante volte questa operazione si mostra dunque tendenziosa; la selezione degli indizi finalizzata a raggiungere il risultato che già avevamo in mente in partenza?

Non è mia intenzione affermare che per tutti valga quanto dico. È un fatto, però, che la Lettera al padre appaia per certi versi come un racconto “a tesi”, finalizzato a rispondere alla domanda principale posta dal padre (“di recente – scrive Kafka in apertura – mi hai domandato perché mai sostengo di avere paura di te“) e ad ascrivere all’impostazione data dal padre una certa caratteristica del figlio (“la tua sfiducia negli altri infatti non è pari alla mia sfiducia in me stesso, a cui tu mi hai educato“); allo stesso modo la possibilità di plasmare e modellare i propri genitori in base ai propri bisogni, di vederli in un certo modo, scegliendo quindi gli esempi (le argomentazioni) più utili allo scopo, è qualcosa di cui quasi tutti, prima o poi, abbiamo bisogno.

Nel mio romanzo, Padri, faccio pronunciare a Gaia queste parole riferite al padre che la vuole perfetta: “è come se il suo affetto dovesse passare per l’orgoglio. Che quando disapprova con lo sguardo ti pare che tutta la Terra disapprovi; che tutto l’affetto della Terra potevi meritarlo e non l’hai fatto”. Offrendo al padre una “parte” (nell’accezione del termine che allude alla recitazione, allo stare in scena), la mia protagonista da un lato ha l’opportunità di trovare una genesi, una radice, per la propria inadeguatezza, mentre dall’altro chiede al padre la stessa perfezione che lui domanda a lei, lo schiaccia nell’idealizzazione – come potrebbe sopportare pretese di perfezione da parte di un uomo fallibile? – trovando poi inaccettabile, addirittura imperdonabile, gli errori che anche lui, a un certo punto, si trova a compiere.

Allo stesso modo nella realtà ho visto figli plasmare l’immagine dei propri padri per giustificare un lato del proprio carattere, per trovare conforto in determinate scelte, per evolvere (penso al “Devo dirti no e tu andarmi contro” che la madre dice al figlio nella canzone Figlio, figlio, figlio di Roberto Vecchioni), per avere un modello, per rendere coerente la propria storia – proprio come fossero personaggi.

In un graphic novel che amo molto, Momenti straordinari con applausi finti di Gipi, il protagonista della storia sceglie di raccontare solo un lato della madre, quello più buio, più difficile, quello più incapace di guardare e ascoltare, quello colpevole della ferita nella sua memoria e nella sua emotività, per trasformare questa ferita sanguinante nel bacino al quale attingere per fare arte: in questo senso la selezione tendenziosa degli aneddoti, dei flashback, va a mio avviso nella stessa direzione dell’operazione di Kafka, almeno finché, alla fine del fumetto, il protagonista di Gipi accetta di aggiungere un tassello differente e stonato al mosaico, e di ricordare un momento felice offrendo alla madre il dono della tridimensionalità.

Che si tratti dunque di idealizzazione, di svalutazione, di utilizzo del proprio genitore come causa o alibi delle proprie azioni o come ispirazione o come modello, è questo che – con il faro della Lettera al padre di Kafka – ho riscontrato spesso guardando al modo, mi si perdoni il gioco di parole, in cui i figli guardano ai padri: una tendenza (spesso “bidimensionalizzante”) alla modellazione, a plasmare l’altro, e una difficoltà, o una mancata volontà, a vedere i propri genitori come persone a tutto tondo, accettandone anche gli aspetti che più faticano a entrare nel quadro delle proprie vite.

Forse questo deriva dall’inconoscibilità che comunque riguarda tutte le persone che non siamo noi, dalla difficoltà di comprendere il mistero delle altre identità – mistero fondato su diverse e irripetibili esperienze, e che ogni volta mi porta alla mente Solaris, capolavoro di Stanisław Lem, dove il tentativo di un contatto da parte di un essere vivente diventa motivo di terrore per chi riceve il suo messaggio – e dal suo scontro con la necessità di farlo di fronte a persone con cui condividiamo la nostra vita da sempre; o forse, proprio per questa condivisione che ha origine da prima della nostra nascita, in qualche modo siamo portati a vedere i nostri padri come nostre estensioni, come qualcosa che è sempre stato, che è difficile immaginare come fragile, caduco e soggetto a errore, e come indissolubilmente legato alle nostre vite e alla storia che vogliamo raccontarci di noi.

L’AUTRICE E IL LIBRO – Padri è il nuovo romanzo di Giorgia Tribuiani, classe ’85, autrice della raccolta di racconti Cronache degli artisti e dei commedianti (Tespli) e collaboratrice come docente di Scrittura creativa presso la Bottega di narrazione, diretta da Giulio Mozzi. Tribuiani ha esordito nel 2018 con il romanzo Guasti, edito da Voland. Con Fazi Editore, nel 2021 ha pubblicato Blu.

E veniamo al suo nuovo romanzo, una storia a tre voci di rabbia e dolore, parole non dette e seconde occasioni, una riflessione sulla famiglia in bilico tra realtà e impossibile. La trama ci porta in un pomeriggio di primavera quando, con lo stesso corpo e la stessa età del giorno della propria morte, Diego Valli risorge. Si risveglia sul pianerottolo di quello che era stato il suo appartamento, tira fuori le chiavi, prova a infilarle nella serratura ma si trova faccia a faccia con il figlio Oscar, lasciato bambino e invecchiato ormai di oltre quarant’anni. Da qui, ha inizio una vicenda di riconciliazioni e distacchi, una storia intensa e sincera sul rapporto tra padri e figli e sulla necessità del perdono.

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