“Guasti” è il romanzo d’esordio di Giorgia Tribuiani, che narra la storia di Giada, una ragazza che, dopo aver perso il compagno, è costretta ad andarlo a trovare al “cimitero” dei cadaveri plastinati, la mostra del celebre anatomopatologo Dottor Tulp, a cui il defunto, fotografo di fama internazionale, ha deciso di donare il suo corpo dopo la morte – Su ilLibraio.it un estratto

Giada ha un luogo insolito dove andare a trovare il compagno appena scomparso: è il “cimitero” dei cadaveri plastinati, la mostra del celebre anatomopatologo Dottor Tulp, a cui il defunto, fotografo di fama internazionale, ha deciso di donare il suo corpo dopo la morte.

Trenta capitoli scandiscono a ritroso i trenta giorni dell’esposizione, mentre gli incontri con i giornalisti, i critici d’arte e i visitatori curiosi si mischiano ai ricordi di una vita condotta all’ombra del successo altrui. In questo limbo che intrappola Giada, il “vigilante del piano di sotto”, personaggio premuroso e allo stesso tempo enigmatico, cercherà di indicarle una via per risalire a galla.

guasti giorgia tribuiani

Guasti (Voland) è il romanzo d’esordio di Giorgia Tribuiani, classe ’85, autrice della raccolta di racconti Cronache degli artisti e dei commedianti (Tespli) e collaboratrice della Bottega di Narrazione di Giulio Mozzi.

Per gentile concessione della casa editrice, su ilLibraio.it un estratto:

Sei morto in piedi, tesoro. Tu cadi sempre in piedi, amore mio.

Caduto in piedi. Scandì le parole seguendo le corde dei tendini, e la coda dell’occhio le si incastrò tra i ghigni di due giovani che si forzò di ignorare: cosa sapevano, in fondo? potevano immaginare che lei fosse costretta a seguire le tappe di un ennesimo tour per vegliare il cadavere dell’amato?

Le venne da ridere, rise, in fondo, si rivolse alla visitatrice anziana che scrutava i piedi di lui, un tour funebre è una cosa buffa.

Scusi?

Se volessi portargli dei fiori, dicevo, dovrei seguire le tappe del nostro artista di cadaveri, il nostro Dottor Morte.

La vecchia corrugò la fronte. Cercò risposte nel petto plastinato, e nel volto; poi inarcò le sopracciglia e tornò a Giada: era suo marito?

Oh, no: no. Il mio fidanzato. O anche il mio compagno, se vuole, per i tanti anni trascorsi insieme, ma entrambi eravamo contro il…

La vecchia le strinse il gomito. Anche io ho perso il mio uomo. Però lui è, sa: al cimitero.

Certo, capisco. Ma in fondo, non si rattristi, per me non è così diverso da allora, dai tempi delle grandi mostre fotografiche in giro per l’Europa, quando lui era l’artista e non l’opera d’arte. Magari è un po’ strano vederlo così, immobile, tutto muscoli rossi nei cataloghi in vendita, ma prima o poi ci si abitua anche a questo.

L’altra annuì, una mano al cuore. Le auguro buona fortuna, signora, e lasciò la saletta senza più guardare il cadavere, gli occhi schiacciati in terra come stracci con cui lavare la vergogna.

Giada, al contrario, la vergogna l’aveva ormai alle spalle. Non le importava che al corpo nudo del compagno avessero dedicato un’intera saletta, venticinque metri quadri raccolti tra la scala, la parete coi polmoni esposti e la porta che conduceva alle stanze degli altri cadaveri; né si curava dei visitatori che osservavano – oltre ai muscoli, i piedi, le labbra, la colonna vertebrale – anche i genitali di lui, i testicoli divisi ed evasi dallo scroto: lui era sempre stato fiero, delle proprie dimensioni, non era mica come nel caso del…

Dio mio, e fece il giro della pedana, si portò una mano alla bocca, dio, dio, nessuna misura era stata presa contro l’esposizione indegna del cranio di lui, quel cranio che sporgeva verso l’esterno sopra la nuca, lì, assumendo la forma ridicola di un missile. Testa prensile, lo chiamavano gli amici, e lui via a comprare bandane, era il fotografo con le bandane, lui, le teneva strette ai capelli lunghi e nascondeva la sporgenza, e qualcuno credeva che fosse un vezzo. Ma chi aveva visto la protuberanza oscena, oh se aveva capito il senso di quei fazzolettoni e oh!, Giada ne era certa, se aveva sorriso della testa prensile, avevano riso di certo, avete riso, l’avete lasciato così, nudo, senza ritegno, per ridere di lui, nonostante lui abbia donato all’arte la vita e la morte.

E allora no, no, no, non era affatto come al tempo dei vecchi tour, perché qualcuno, stavolta, aveva voluto ridicolizzare la sua grandezza, macchiare l’eternità con quell’unico difetto immondo. Maledetto il giorno!, maledetto il giorno in cui lui aveva deciso di donare il corpo all’arte, c’era la mostra del Dottor Morte, lei che si allontanava all’uscita, prendo la giacca al guardaroba, lui che lei tornava ed era un promesso plastinato: hai firmato davvero?, sì che ho firmato, e della firma avevano riso, dio se avevano riso, specie quando il proprietario del bar sotto casa aveva iniziato a scherzare: il Dottor Morte ti chiamerà al telefono, caro mio, ti chiederà stai bene?, perché ho bisogno di una novità della mostra di domenica, vedi un po’ tu, e allora lui ne aveva riso, e pure lei, sì che ne aveva riso, ma non aveva immaginato questo: la mancanza di rispetto, l’invidia del Dottor Morte per il suo uomo così grande, l’idea crudele di farne lo zimbello, la sua deformità il vero spettacolo di quei venticinque metri quadri.

E infatti eccoli lì, come aveva fatto a non badarci? Tutti i visitatori guardavano la protuberanza, la guardavano e ridevano, li vedeva, ridevano dietro le mani fingendo sbadigli, si volgevano gli uni verso gli altri, sussurravano, ghignavano: stupidi. Stupidi! maledetta anche la vostra stupidità! Preferireste i vermi? la persona che amate, che la mangiassero i vermi?

Due fidanzati osservavano il cadavere: si volsero verso di lei.

Non avete il diritto di guardarlo in quel modo! È stato uno scherzo disgustoso, ma voi non ne avete il diritto!

Il ragazzo passò il braccio intorno alle spalle della compagna, la guidò verso la scala: andiamo, è pazza.

Pazza. Giada rise. Pazza io, e si volse verso il proprio uomo, che ritornino di sotto, andate, godetevi quel tipo per orizzontale, il corpo a bistecche, l’hai visto amore mio?, avrebbe potuto andarti peggio, il Dottor Morte a segare le tue braccia, a far bistecche d’uomo, ad appenderle per orizzontale, e rise, poi sì che mi sarei arrabbiata, le mie mani avrebbero tremato, tremano, le mani di Giada tremavano e allora andò in bagno a sciacquarsi le guance: quel posto sarebbe stato il suo cimitero per altre ventinove giornate, meglio stare calmi, respirare, così raggiunse la toilette, aprì il rubinetto e lo vide. Il cappellino. Nell’immagine riflessa, nero contro la porta alle sue spalle, il cappellino. Euforica lo prese tra le mani e corse da lui.

Amore, ho la soluzione!

Le maglie del berretto coprirono la sporgenza del cadavere. Poi l’allarme coprì la sua allegria.

 

Intorpidita, strisciando i polpastrelli sul corrimano lungo la scala, Giada salutò il secondo giorno di esposizione con gli ansiolitici nel retro degli occhi e nella borsa, tra il portafogli e le TicTac. Lui la attendeva alla fine della rampa, sulla sinistra, senza pelle. Lo raggiunse e leccò le labbra secche. Lui senza pelle, lui lì nudo come dopo l’amore, quanto tempo, passava impudico davanti alle finestre per frugare nella credenza e Non farti vedere, gli diceva lei allacciando il reggiseno prima di infilarlo dall’alto, non farti vedere, tu sei mio, nessuno ti tocca, e adesso – ironia della morte – di toccarlo poteva scordarlo anche lei, di accarezzare la testa calva, scotennata, di togliergli la macchina fotografica dalle mani e abbassargli le braccia lungo i fianchi: adesso riposa mio amore, riposa. Mio povero amore. Hai firmato per gioco, quel tuo gusto per il nuovo, la tua arte, credevi fosse tua e invece eri suo, lo vedi?, ti ha fatto schiavo e chissà se tornerai libero com’eri, chissà se arriverà l’Abramo Lincoln dei morti a dirti muovi i tuoi muscoli, fletti il dito, fotografa ancora. Ricordi? Immobile come adesso, fingevi concentrazione e ti giravi alla sprovvista: clic!, e mi intrappolavi in un’immagine col trucco sfatto, clic! clic!, e io ero lì che mi grattavo, o avevo macchie di gelato intorno alle labbra – secche, oggi sono così secche – o di caffè sulla punta del naso. Troppe volte hai fermato il tempo impedendogli di cancellare le macchie e adesso il tempo si è fermato per te, come nelle foto, in quest’ultimo scatto in cui tu cerchi la parete, la parete: la parete, anche lei la cercò, e massaggiata dalle voci ovattate dei visitatori in quell’ultimo scatto si perse: divenne il suo uomo e guardò nell’obiettivo.

Una teca con tre coppie di polmoni, la sana, la cancerosa e quella del fumatore, e poi un estintore e un pannello di plexiglass che diceva le sigarette provocano danni immani alla salute: questo avrebbe immortalato il suo uomo se la morte gli avesse concesso qualche fotogramma in più per la sua filmica vita.

Che sciocchezza.

Che sciocchezza, amore, tu non avresti mai scattato questa foto. Tu avresti mirato ad altro: la fronte a solchi di chi passa oltre la teca in una scia di fumo, la madre che stringe la spalla del figlio davanti a polmoni curvi e neri come prèfiche, le mani della guida che spiega la plastinazione agli studenti e non si accorge di indicare la morte: eh, amore? quale sarebbe stata la tua prossima mossa?

Io, sono certa, tu avresti scelto un’altra foto.

Sentì addosso gli occhi della guida.

Lei non crede? Se l’uomo fosse una macchina dalle scelte indotte potremmo ricaricare tutti questi cadaveri, farli ripartire come orologi.

Lui si lisciò i baffi. Signora, il limite tra essenza ed esistenza è…

Oh, mi risparmi la filosofia. Sartre non riattiverà il mio uomo.

Il suo: cosa?

Le presento il compagno della mia vita. Purtroppo al momento è bloccato nel suo limbo, ma sono certa che le avrebbe stretto la mano, ai suoi vernissage. Avrebbe dovuto vedere. Quanta gente, quante luci. Sa, da una parte ero felice, ma dall’altra lo invidiavo un po’. Anche adesso sono tutti qui per lui.

Ora l’indice era fermo sul baffo. Lo schiacciava.

Su, adesso sto scherzando: rida. Ridere fa bene. Non volevo distrarla, poi, dalla lezione. Spieghi a questi ragazzi come funziona la plastinazione, chissà che uno di loro non voglia scoprire il limite tra essenza ed esistenza.

Signora, dio mio, mi spiace.

Giada rivolse al cadavere un sorriso complice, poi tornò alla guida: vede?, adesso Sartre non interessa più neanche a lei.

 

Il biglietto d’ingresso diventava tutto pieghe, mentre camminava tra i corpi, due rettangoli, quattro, un tempo ne avrebbe fatto un origami, una gru capace di battere le ali, a tenerla per la coda, ma adesso a distrarla c’erano tutti quei corpi rossi, l’albero di nervi all’entrata che un giorno era stato il dolore e il piacere di qualcuno, l’ambasciatore di una carezza di cui piangere o di una bruciatura da scoprire i denti; c’era una vita, in quei rami; c’era una vita, nel cadavere che era ormai due cadaveri, ecco lì, lo scheletro che correva avanti e il tessuto di muscoli ricostruito alle sue spalle, come fosse in ritardo: solo il piede integro li collegava, testimonianza del vecchio corpo.

Pensa se fosse capitato a te, mormorò quando fu in cima alla scala, di fronte all’amato, siamo stati fortunati, vero? Se ti avessero – Ma che è una Nikon?, la interruppe una voce.

Giovane smilzo, pizzetto curato, jeans col risvolto: chewing-gum. Al collo aveva una macchina fotografica e il braccio della fidanzata.

Sì, è una Nikon.

Fa’ vedere che modello.

Il ragazzo alzò la testa e la fronte e lo sguardo; fece un passo, e il gomito della ragazza scivolò giù lungo la schiena e gli si fermò in vita, la mano aggrappata alla cinta.

Cristo santo!, è da farci a scambio. E la danno a un cadavere, ma tu pensa che spreco.

Giada allora scosse la testa. Sei un po’ ignorante, mi sa, perché quest’uomo era un grande della fotografia, esponeva in tutta Europa e la gente si metteva su un aereo per vedere le sue mostre, era brillante e capace: tu lo sei?

Studio fotografia, disse il ragazzo carezzando il pizzetto, ma poi il nome del cadavere sbocciò tra le labbra di lei e allora il plastinato smise di essere un plastinato e tornò il grande artista di un tempo. Giada lesse la trasformazione negli occhi del giovane, nella morsa in cui strinse il mento, e capì che l’unica opera viva era adesso il suo uomo, e non perché fosse stato suo, non perché fosse vivo per lei, ma perché lei era lì dal primo giorno a conservarne la memoria, a renderlo reale pronunciandone il nome.

Il ragazzo riprese a masticare. Non credevo l’avessero plastinato.

L’ha chiesto lui; anche se, secondo me, non avrebbe mai scelto questa prospettiva per una foto, tu che dici? Quel polmone nero, il cartello con la filippica sul fumatore. Mi chiedo invece quali persone avrebbe scelto, perché di questo sono certa: avrebbe scelto le persone.

Il ragazzo annuì. Lo seguivo molto. E le chiedo scusa, per prima, ma sa, vederlo così, lo ricordavo capelli lunghi e bandana. Non volevo mancarle di rispetto.

Oh, rispetto! Qui di rispetto ce n’è ben poco, e non solo per questa storia del polmone e del cartello, ma anche per, vieni, guarda, lo vedi quel bozzo sulla testa? Lui lo teneva nascosto e, sì, non avrei dovuto indicartelo, però ecco, se il Dottor Morte fosse stato rispettoso l’avrebbe fatto coprire: una bandana, un cappello, qualcosa. Ma io ho un pensiero, sai? Se vuoi far tuo un essere umano, e lo dico qui con la tua ragazza davanti, devi conoscere i suoi desideri e i suoi bisogni, e rispettarli.

È un bel pensiero, disse una voce che non apparteneva al giovane né alla sua fidanzata, un bel pensiero espresso da una donna forte e coraggiosa, in grado di restare tutto il giorno accanto al plastinato della sua vita. Parlano tutti di lei, lo sa?

Una mano si tese – Sono Mattia Popoli, scrivo per il Roma – e dietro quella c’erano un braccio minuto, un uomo gracile, un volto così ossuto da confondersi con quelli dei plastinati, non fosse stato per gli occhi vispi e la lingua che inumidiva le labbra con strisciate da carta di credito. Giada accolse la mano (come allora, come ai tempi della grandi mostre fotografiche in giro per l’Europa) e poi la vide recuperare la penna, clic clic, ora l’uomo faceva entrare e uscire la punta, entrare e uscire, entrare e uscire, finché quella non si fermò, fuori, contro una cella del block-notes a quadretti.

Ho saputo che lei viene qui tutti i giorni e ho pensato di fare due chiacchiere, chiederle ad esempio cosa ha provato quando suo marito –

Non era mio marito, signor Popoli, lui non mi avrebbe mai sposata. Era contrario al matrimonio e voleva solo starmi accanto, questo diceva, che non aveva bisogno di firmare nulla per starmi accanto e sa, alla fine mi aveva convinta, anch’io non l’avrei mai sposato.

E cosa ha provato quando ha saputo che l’avrebbero plastinato davvero?

L’avevo appena perso. In quel momento nulla avrebbe fatto differenza. Cremato, sotterrato, seppellito in mare.

E quando l’ha visto qui? Cosa ha provato quando l’ha visto qui?

Be’, non ci crederà ma è stato come tornare indietro, al tempo delle sue mostre. Lui era al centro della scena e io…

Quindi non c’è stato un impatto particolare?

No, aspetti. Mi lasci parlare e, anzi, lasci che sia io a farle una domanda: crede davvero che questa intervista sarà utile a qualcuno? Lei è qui per il pezzo drammatico, quello che commuove i lettori, povera povera Giada, ma crede davvero che queste persone vivranno meglio dopo aver conosciuto il mio dolore?

Il giornalista serrò le labbra.

Su, signor Popoli, risponda con sincerità. Io l’ho fatto con lei. Crede che suonare ai campanelli delle vedove sia il modo migliore per fare cronaca? che le loro storie possano aiutare qualcuno? sensibilizzare? Guardi quel cartello, tutta la sbobba sui danni del fumo. Quelle righe parlano di morte ma nessuno ci fa troppo caso, e sa perché? Perché della morte per il fumo, così come della morte in generale, si parla tutti i giorni.

Gli occhi del giornalista accarezzavano il polmone nero.

Mi dia retta, signor Popoli, faccia qualcosa di nuovo: strappi il suo foglio e parli d’altro, per una volta. Scriva che il mio uomo non avrebbe mai puntato l’obiettivo sulle cose morte, o che la tennista più avanti era una forza nel rovescio e non nel dritto. Scriva che l’albero di nervi all’entrata non ha più voce per raccontare che il latte col miele scaldato dalla mamma era troppo caldo, e che il bicchiere scottava le dita.

Il giornalista arricciò un angolo della bocca. Lei è una donna interessante. Non so cosa scriverò in redazione, ma devo dirle che, se ero venuto qui per parlare con la compagna di quest’uomo, è stato bello, alla fine, parlare con lei.

Parlare con: in che senso?

Nel senso che adesso, se mi confessasse di non aver mai conosciuto il fotografo, resterei comunque ad ascoltarla.

Lei resterebbe, e Giada avvampò, la testa si mise a pulsare e mi scusi, signor Popoli, mi scusi, e spinto da parte il giornalista si fece strada tra i visitatori e cercò il bagno, il bagno, il bagno con le porte alte che mostravano piedi e strappi di carta igienica, coi contenitori di tovaglioli vuoti da un pezzo, col cestino bocca piena di carta, il sapone sugli specchi, i lavandini otturati, in uno un laghetto con dei capelli lunghi. Lei resterebbe. Aprì i rubinetti. Spruzzò in faccia due manate d’acqua e fu come spruzzarsi sulla pelle tutte quelle fotografie, quei sorrisi, quelle strette di mano, quelle luci, tutte quelle luci e le insegne luminose e i tappeti e i lampadari e prego, prego, il mio compagno la aspettava, voleva tanto parlare con lei, le faccio strada e sì, sono io, sono la sua donna, mi ha vista in copertina su Arti&Passione, c’era un pezzo dedicato a lui e sì, certo, sono la donna della foto sull’altalena, sono la sua compagna, sono lei.

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