Cosa resta del legame tra un padre e un figlio dopo un rabbioso distacco durato trentasette anni? Un’intera vita di lontananza. Per poi ritrovarsi all’improvviso… – Su ilLibraio.it un capitolo dall’autobiografico “I colpevoli”, nuovo libro di Andrea Pomella

“Non voglio piú vederti”, dice un bambino a suo padre, che se ne è andato di casa. Lo dice, ma poi soprattutto lo fa. Si rifiuterà d’incontrarlo per trentasette anni. Il bambino che ha pronunciato quella frase, il bambino che ha abbandonato il padre rovesciando la prassi secondo la quale, semmai, accade il contrario, è lo stesso Andrea Pomella, che torna in libreria con I colpevoli (Einaudi).

È lo scrittore, ormai adulto, a raccontare la ricostruzione del rapporto – impossibile eppure concretissimo – con il padre, a mettersi in gioco senza infingimenti, a ferirsi, a denudarsi una riga dopo l’altra.

Usando l’io come una clava, per rompere tutti i vetri e tutti i muri. In cerca di un senso, di una direzione. Cosa significa, concretamente e simbolicamente, tradire e abbandonare? C’è una giovane donna seduta nel luogo in cui avvenne il tradimento piú famoso della storia: l’assassinio di Giulio Cesare. È in attesa che lui – il bambino diventato adulto – pronunci una delle due frasi che, in un modo o nell’altro, le cambieranno la vita: “Lascerò lei per te”, oppure “Non posso farlo”. E lui pronuncerà la sua frase, e con quella frase forse rifonderà la sua esistenza, proprio come ha fatto il padre trentasette anni prima.

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Tutte le nostre vite sono costellate di tradimenti e di abbandoni. Nella sua personale “lettera al padre”, Pomella racconta la storia di una riconciliazione, ricostruisce un ponte sospeso su un abisso, per dare senso compiuto alla parola perdono.

L’autore, romano classe ’73, ha scritto Il soldato bianco (Aracne, 2008), 10 modi per imparare a essere poveri ma felici (Laurana, 2012), La misura del danno (Fernandel, 2013) e Anni luce (Add, 2018, candidato al premio Strega). Con Einaudi ha pubblicato anche L’uomo che trema (2018, Premio Napoli 2019)

andrea pomella i colpevoli
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:
Che significa perdonare?

Al culmine di tutto c’è una domanda: che significa perdonare?
In termini logici il perdono si dà quando si ristabilisce uno stato di grazia perdonando un’offesa. C’è l’offesa, la comprensione e la grazia. E se manca uno di questi tre elementi non c’è perdono.
Il cuore del perdono quindi è la comprensione. Per comprensione non s’intende capire le ragioni dell’altro, e quindi giustificare, ma rendere chiari a se stessi le contingenze che hanno reso possibile che l’altro c’infliggesse l’offesa.
Ciò che è imperativo nel perdono, perciò, è la comprensione, qualcosa che assomiglia all’apprendimento di una nuova lingua, al tentativo di penetrare un mondo che prima ci era sconosciuto. Il perdono è niente senza la comprensione, ossia senza che l’offeso abbia attraversato questo territorio ostile e ignoto. Se l’offeso persevera per tutta la vita a trattenersi sul confine, contemplando il territorio nemico senza decidersi a oltrepassarlo, l’offesa resta intatta, e non ci sarà perdono. Il perdono quindi non dipende da chi ha offeso, ma da chi ha ricevuto l’offesa. E quanto piú l’offesa è stata grande, tanto piú sincero sarà il perdono. Il vero perdono può perdonare soltanto l’imperdonabile. Ecco perché tra offesa, comprensione e grazia manca ciò che la gran parte degli individui reputa un requisito indispensabile al perdono: il pentimento. Il vero perdono è esente dal pentimento.
Se c’è pentimento da parte di chi ha offeso, anzi, non può esserci perdono, bensí compassione. L’atto dell’espiazione avvicina chi ha offeso a chi è stato offeso, riportando l’onta su un terreno imparziale. È per questo che io, dopo trentasette anni, non posso dire di averti perdonato: perché tu hai implorato il perdono, hai fatto atto di espiazione, mentre io ho sempre creduto di non aver mai attraversato il terreno ostile e ignoto, di essere rimasto per tutta la vita sul confine a contemplare il territorio nemico senza decidermi ad attraversarlo. Quindi il mio gesto nei tuoi confronti non può essere di perdono, ma di pietà. Eppure io non credo che si possa ricomporre il nostro rapporto attraverso la pietà.

Tuttavia, all’inizio della nostra nuova vita, se c’è un sentimento che provo verso di te è proprio questo: un indomito senso di pietà, qualcosa che va contro la mia volontà razionale, un impulso che affiora senza che possa controllarlo. Non riesco piú a provare rancore nei tuoi confronti, neppure al ricordo del tradimento che hai compiuto verso la nostra famiglia negli anni oscuri della mia infanzia.

Durante questi trentasette anni mi sono tenuto alla larga da ogni informazione che riguardava la tua vita, notizie che potevano arrivarmi per vie traverse, soprattutto da mia sorella, che al contrario di me non ha mai smesso di frequentarti, ma Tania sapeva bene quanto m’infastidisse anche solo un accenno all’argomento.
Perciò, nel momento in cui tu e io ci siamo rincontrati, io non sapevo niente di te e tu non sapevi niente di me. Il vuoto che adesso dobbiamo colmare quindi non è solo un vuoto di sentimenti, ma di eventi, di aneddoti, di consuetudini. Abbiamo attraversato molte età, abbiamo affrontato gioie e dolori, e ciò che ora siamo è il risultato di questa distanza: tu e io siamo un cumulo di circostanze che non riusciremo mai a riepilogare, neppure se un dio benevolo ci concedesse altri trentasette anni da trascorrere insieme. E neppure siamo nella condizione di poterci porre l’un l’altro delle domande banali. Dove abiti? Come si chiama il tuo migliore amico? Preferisci il mare o la montagna? Perché questo sí imporrebbe l’imbarazzo che cerchiamo di tenere lontano. Cosí le informazioni piú semplici che ci riguardano le infiliamo nei discorsi, come se fossero frammenti isolati che cadono dal cielo, la pioggia che segue un’esplosione astrale.

Sant’Agostino diceva che il tempo è un’estensione dell’anima. «È inesatto dire che i tempi sono tre, – è scritto ne Le confessioni, – passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non le vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa». Memoria, visione e attesa sono i tre termini che racchiudono il nostro nuovo rapporto, un rapporto che d’ora in poi sarà fondato in via esclusiva sul tempo presente, poiché ci è negata per statuto la possibilità di guardare al passato e perché abbiamo l’accortezza di non scrutare nel futuro.
Non sono sicuro che il tempo sia un’estensione dell’anima. Credo piuttosto che l’anima sia un prodotto del tempo. Il luogo in cui è immersa la moltitudine di sentimenti, pensieri, volontà e coscienza non ci è dato dal principio della nostra vita, e perciò non è immutabile. L’anima evolve. Non è incorruttibile, come sostiene la fede cristiana. Non si può credere a una presunta purezza dell’anima, non c’è nell’uomo nulla che sia definibile come puro. Guardando al di là dell’uomo, credo che nella realtà materiale non esista qualcosa di assimilabile alla purezza assoluta. L’anima – come il corpo – è in continua evoluzione, segue le leggi del tempo e a esso si conforma.

Ciò che a prima vista mi sconvolge è constatare come la tua anima sia profondamente mutata in questi trentasette anni. Se il tempo fosse nell’anima, come sostiene sant’Agostino, la corruzione sarebbe ancora in te, cosí come la rabbia sarebbe ancora in me. Ma io non vedo piú corruzione nella tua anima, e non vedo piú rabbia nella mia. Vedo corruzione e rabbia nel passato, disponibilità nel presente, e fiducia nel futuro. Vedo le nostre anime nel tempo.

© 2020 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

(continua in libreria…)

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