In un paesino immaginario della Sicilia si apre nel 1943 una storia dai ritmi ancestrali, in cui la parola salva i ricordi dall’oblio. Veronica Galletta in “Pelleossa” attinge dal siciliano un lessico capace di colorare la narrazione, rendendola poetica…

Dopo il romanzo finalista allo Strega dello scorso anno, Nina sull’argine (Minimum fax, 2021), Veronica Galletta in Pelleossa (sempre Minimum Fax) si misura con un romanzo corale, ambientato nel paesino siciliano di Santafarra, a partire dal 1943.

Se il piccolo Paolino Rasura, di quasi otto anni, è il punto di vista ribassato da cui viene scoperta la vita di Santafarra, tanti sono gli abitanti del paese che condivideranno racconti e ricordi delle loro vite, intervallandosi alla visione ingenua ma perspicace del bambino. Alcuni sono Terragni, altri Sali, e ognuno porta avanti con fierezza l’orgoglio di appartenere a una categoria e nutre sdegno verso l’altra.

L’attaccamento alla tradizione e alle professioni dei propri avi, in linea con la concezione verghiana, è fortissimo, così come l’abitudine a chiamare le diverse famiglie con un soprannome, che segue i discendenti di generazione in generazione. La famiglia di Paolino, ad esempio, è soprannominata “Pelleossa” (da qui il titolo del romanzo), e per anni il bambino ha ignorato perché. Inoltre, chi, come lui, non vuole diventare pescatore come il padre e preferisce percorrere vie meno battute dagli altri, è mal visto dai compaesani.

Paolino è per tutti quanti, persino per i suoi famigliari, un po’ strano: non vuole vedere il sangue dei pesci e non smania per andare a pescare con il padre e il fratello maggiore. Preferisce invece usare la fantasia, fare domande a tutti e poi lasciarsi estasiare dalle loro storie, che lo lasciano stupito e senza parole. Per questo i suoi compagni gli attribuiscono il soprannome di “Ncantesimo” e Paolino sa che un soprannome a Santafarra marchia per sempre. Persino il suo migliore amico, Giacinto, sembra ormai poco interessato a passare il suo tempo con lui e gioca soprattutto con Cateno, figlio di un’altra famiglia storica di Santafarra, i “Lucicùli”.

Ecco perché, con l’avventatezza dei suoi anni, Paolino accetta di affrontare una prova di coraggio, pur di farsi accettare nuovamente dal gruppo e attirare l’attenzione di Giacinto. Deve così recarsi fino al Giardino, dove vive un uomo ritenuto da tutti un vecchio pazzo, e sottrargli la mazzetta con cui è solito scolpire delle teste di personaggi illustri.

Ciò che gli amici non sanno è che Paolino, andando in quel posto un po’ sperduto con i brividi in corpo, troverà un nuovo amico. Filippu – questo è il nome dell’uomo a cui spesso “il buco nella testa dava aria ai […] pensieri” (p. 91) – è un artista di talento, abituato a vivere da solo con i suoi due cani e coltiva tanti sogni un po’ bislacchi, a cui non vuole rinunciare. Ricorda spesso la sua vita in America, la sua amata Meri, a cui spera di ricongiungersi presto, e si apre progressivamente con questo bambino che, di pagina in pagina, vediamo andare a cercare affetto per le vie di Santafarra.

Alla figura poetica e stravagante di Filippu, infatti, si alterna il personaggio di Zu Ntoni, un uomo sordo e cieco, che riconosce tutti dagli odori e ha sviluppato particolarmente gli altri sensi per muoversi e mantenere un contatto con la realtà del paese. Zu Ntoni e Paolino trovano un loro modo per entrare in comunicazione e, manco a dirlo, anche questo personaggio ha una storia straordinaria che pian piano tornerà a vivere nelle sue parole.

Dunque, si comprende bene come in questo romanzo siano soprattutto i personaggi e le parole a contare, parole che medicano il presente e aiutano ad accettarlo. Il paese, infatti, è segnato periodicamente dalla morte, ma le tragedie, per quanto generino disperazione, sono ritenute una parte naturale della vita. Persino il piccolo Paolino ha imparato presto a farci i conti, con la morte della sorellina Nennella, ma chi non c’è più continua a vivere nei ricordi e nelle parole di chi resta. E il sogno è la dimensione in cui il limite tra vita e morte si può valicare, il luogo dove personaggi scomparsi possono riaffacciarsi e dare consigli.

Mentre la numerosa famiglia dei Rasura vive momenti di grande tensione (Calogero, fratello di Paolino, tornerà dalla guerra?) e sperimenta più di una volta il dolore della perdita, Paolino si apre alla crescita e ai primi pensieri amorosi per la sua compagna Natàlia. Ha sempre accanto la “gatta gattonzola” Nerina e il fratellino Ciccio, che crescerà nel fisico ma non nella mente; spesso davanti a casa troverà il nonno Silvestro, intento a intrecciare nuovi cesti che venderà poi in giro per l’isola. La madre Lucia è un personaggio tormentato dai suoi lutti, spesso chiusa com’è nel ricordo, nella preghiera e nelle faccende quotidiane. Il padre Felice non sembra uscire dall’autoritarismo che sfocia spesso in scoppi d’ira; è un uomo di mare, destinato a trascorrere più tempo in barca col primogenito Pascali che in casa col resto della famiglia.

E mentre la grande Storia si affaccia a Santafarra, più per sconvolgere che per rappacificare, resistere è una parola d’ordine. Lo testimonia anche la scelta linguistica del romanzo: una patina dialettale, con prestiti e calchi dal siciliano, si avvicenda all’italiano, portando con sé il suo substrato di tradizione, poesia lessicale e coraggiosa ricerca stilistica.

Intanto, Paolino cresce, porta con sé tante domande a cui neanche il maestro Giovanni può rispondere. Sono perlopiù gli abitanti del paese ad aiutarlo a capire che occorre andare oltre i pregiudizi, oltre le dicerie, persino oltre le loro parole, per farsi una propria idea sugli altri e sulla vita.

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