Fra gli scrittori ossessivi, la cui lingua batte in continuazione là dove il dente duole, Michele Mari, che torna con “Locus desperatus” è sicuramente uno dei più grandi, le cui parole tornano a dare forma a un grumo, e in questa forma a nasconderlo, sotterrarlo, racchiuderlo, come polvere, in un’urna…

Fra gli scrittori ossessivi, la cui lingua batte in continuazione là dove il dente duole, Michele Mari è sicuramente uno dei più grandi, le cui parole tornano a dare forma a un grumo, e in questa forma a nasconderlo, sotterrarlo, racchiuderlo, come polvere, in un’urna, se è vero che l’autobiografia, che Mari va costruendo per addizioni dagli anni Novanta, non è quella della sua vita, ma è di un sostituto, il suo linguaggio, che funziona come un doppio mostruoso con cui calarsi nell’abisso, protetto da una letteratura al quadrato, da una patologia del linguaggio: lingua malata, ma la vita è salva.

Non stupisce, allora, che l’autore delle Copertine di Urania (ripubblicato l’anno scorso per Humboldt in edizione illustrata), dopo due edizioni del bellissimo Asterusher, dopo alcuni libri-oggetto, dopo le Scarpe fatidiche, dopo insomma una collezione infinita di oggetti, non stupisce, dicevo, che nel suo ultimo romanzo, Locus desperatus, appena uscito per Einaudi, tutta la narrazione parta dalle tanto care cose.

Locus Desperatus di Michele Mari

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Ma non si tratta semplicemente di cose, piuttosto di feticci, oggetti radioattivi, come gli definisce il narratore, custoditi nella sua “tana-museo”, sulla cui porta, una mattina compare una strana croce.

La casa è segnata, il narratore cerca di capire da cosa, ma la vicenda non è mai del tutto chiara: strani personaggi, che sembrano usciti dai racconti di Hoffmann, intendono sostituire l’abitante della tana-casa, della casa-labirinto, con un ultracorpo, o un golem, a impossessarsi delle sue cose.

Ma in questo nuovo romanzo, al contrario della maggior parte della produzione precedente, la trama conta davvero poco: a contare è soprattutto la ritualità che investe gli oggetti, il loro potere, e il modo in cui attorno a questi si condiziona l’agire del narratore – al punto tale che finanche l’etica sembra da loro discendere. Sono oggetti “impregnati”, per usare l’espressione dell’artista surrealista Milan Nápravník, e che esistono e condensano (ma si potrebbe dire anche spostano e sublimano) l’identità del possessore. E questa a sua volta da quelle dipende: non a caso l’alterazione delle cose comporta la cancellazione della memora del protagonista: i volti nelle fotografie si sfocano, le parole (anch’esse fattesi cose) si cancellano dai romanzi fino a diventare un “caos alfabetico” obliandone anche l’esperienza della lettura; e man mano che gli oggetti si alterano, la memoria viene meno, l’identità si sfalda, si sdoppia, si sfilaccia: “voi non siete più una persona”, dice uno dei grotteschi personaggi al protagonista, “A furia di circondarvi di cose, amandole, collezionandole, vi ci siete a poco a poco trasferito, regalando loro quote sempre più consistenti della vostra personalità. Le avete personificate, giusto? e nel contempo vi siete spersonalizzato. Credevate di possedere, e sarà stato pur vero: solo, vi siete spossessato. Sicché noi – noi – io o il buffone di prima o certi altri che non oso nemmeno nominare, per prendervi l’anima non dobbiamo fare altro che prendere le vostre cose”.

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Le cose stanno lì, nella loro evidenza, a disegnare una lunga pratica di collezionismo che non è solo e soltanto apotropaica, ma si carica di ritualità magiche volte a allontanare il trauma e la morte; sostituti simbolici di una perdita non identificata, emblemi di inautenticità che si fa, tuttavia, vita vera e autentica (per via etimologica, non a caso, dietro al latino facticium c’è non solo la contraffazione, ma anche l’artificio e la finzione: e dunque la creazione).

Dietro la presenza delle cose c’è, in Locus desperatus, tutto un universo di rapporti interrotti e non recuperabili. E nemmeno narrabili se non attraverso un dispositivo fantasmatico di trasformazione della vita in un racconto fantastico: così a scomparire dalle fotografie è soprattutto il volto paterno; così uno degli oggetti più carichi di risonanze è un’urna che dovrebbe contenere i resti della madre, ma che in realtà, a causa di un errore (un banale! scambio) probabilmente conserva le ceneri di una vecchia compagna di classe.

La vita delle cose, in fondo, in una sorta di feticismo sciamanico, sembra quasi da fare da contraltare alla morte della madre, alla cui figura rimandano molte situazioni del romanzo, ma sempre in forma grottesca, impiastricciata dell’attrazione che da sempre la scrittura di Mari intrattiene per il basso corporeo, la visceralità, il cibo. Così una conturbante esperienza sessuale con l’ultracorpo di una certa S*** si risolve nella suzione di un seno che la donna “faceva sussultare come polenta che ribolla nel paiolo”; oppure la madre si sdoppia un’altra mostruosa, quasi parodia di quella proustiana: il bacio della buonanotte viene ribaltato in un risveglio mattutino in cui “mia madre allora prende il mio pitale, lo porta in bagno, ci fa dentro la pipì, tanta, poi torna da me, solleva il lenzuolo superiore e mi innaffia tutto, pigiama, orsino, lenzuolo, materasso, svuota il pitale fino all’ultima goccia, poi rimane qualche minuto ad osservarmi, in silenzio, senza espressione, quindi, finalmente, mi sveglia rimproverandomi e sfila via tutto”.

Questa pulsione feticistica, oltre a essere spia di una volontà di fare degli oggetti delle “miniature di eternità” (la definizione è di Jeanne Hersch), esaspera soprattutto il fallimento di questo tentativo: se le cose hanno una vita, hanno anche delle lacrime, e possono morire (come la madre, appunto, che si fa cosa, come i compagni di classe, come il padre dal volto sfocato, e come l’io-cosa stesso).

Da questa prospettiva, fuori da ogni realismo, la ridda degli oggetti assume un carattere perturbante caricandosi dell’incrinatura di grandi polarità dal profondo portato antropologico, mettendo in crisi, cioè, le distinzioni fra animato e inanimato, fra soggettivo e oggettivo, fra sé e mondo. Tanto che lo stesso centro dell’io non regge: ma anche così, dimidiato, autosabotante, resta il generale delle cose sue tutte, per combattere una realtà vissuta, per tramite di oggetti che abbiano un surplus di energia, come scrive Auguste Comte nel Corso di filosofia positiva, quale “allucinazione permanente”.

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Fotografia header: GettyEditorial 18-08-2021

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