L’ambiguità fra il grottesco, il brutto, il puzzolente e la bellezza, l’impurità, l’unione di alto e basso, vita e morte, la fascinazione per un comico riscattato o allontanato (o forse addirittura amplificato) da una scrittura ricercatissima, al contempo ironica e serissima. Michele Mari torna con la raccolta di racconti “Le maestose rovine di Sferopoli” e sperimenta, di brano in brano, stili e modi narrativi. Ma è sempre la lingua a contare più di ogni altra cosa… – L’approfondimento

“Il conte Verri spiegò essere il Gorgonzola il più profumato dei formaggi e insieme il più puzzolente, e consistere il suo fascino precisamente nell’ambiguità fra la puzza e il profumo ovverosia fra lo schifo e la grazia ovverancora fra il basso e l’alto, cioè insomma, come ben sappiamo noi artisti, fra la morte e la vita, sempre che si voglia vedere il bello nella vita e il brutto nella morte e non si preferisca al contrario, a motivo della sua impurità, mettere la vita con le puzze schifose, e per conseguenza la morte con i profumi graziosi”.

È un brano contenuto nel Dialogo fra Leopold Mozart, Wolfgang Amadeus Mozart e un venditore di formaggi, uno dei testi che compongono Le maestose rovine di Sferopoli (Einaudi) di Michele Mari, e funziona da perfetta dichiarazione metapoetica: l’ambiguità fra il grottesco, il brutto, il puzzolente e la bellezza, l’impurità, l’unione di alto e basso, vita e morte, la fascinazione per un comico riscattato o allontanato (o forse addirittura amplificato) da una scrittura ricercatissima, al contempo ironica e serissima.

Copertina del libro Le maestose rovine di Sferopoli

Con questo libro Mari si conferma un dei nostri migliori scrittori di racconti, e possiamo considerare Le maestose rovine di Sferopoli insieme una summa e una continua variazione e rielaborazione dei modi e dei temi cui ormai l’autore da anni ci ha familiarizzato: l’immaginario infantile, legato alla paura, all’orrore (L’orrore ai giardinetti si intitolava uno dei più bei racconti di Tu, sanguinosa infanzia), al buio, o alla tristezza (la Storia del bambino triste si intitola una di queste storie), ma anche la fascinazione morbosa per lo schifo che attira compulsivamente lo sguardo; l’attitudine del voyeur, la pulsione scopica, in particolare se dalla serratura, anima molti di questi personaggi, dall’ossessione di vedere cosa c’è dietro una porta chiusa fino al delirio voyeuristico del panopticon di Bentham, che, per via etimologica, si fa guardiano; o ancora l’attenzione continua alla materia inanimata (di cui Asterusher è forse l’esempio più emblematico nella produzione di Mari), con le sue personificazioni (figurate e letterali come nella storia dei golem in Argilla), il feticismo e la magia degli oggetti (Scarpe fatidiche) che possono segnare un destino, riassumere o determinare il percorso di una vita.

E la fatalità torna a più riprese in questo libro e, se non sono le cose a determinarla, è la parola: “Come la vita è nel verbo, il destino è nel nome”; o delle immagini precise che intessono un richiamo intertestuale costante con la produzione precedente, come il verderame che dava il titolo a un romanzo del 2007 o la casa, leitmotiv della poetica intera di Mari; e si possono aggiungere, ancora per via di ossessione, la riscrittura (della storia boccaccesca di Federigo degli Alberighi), l’apocrifo, il plagio, il grottesco, la tendenza, fino alla follia, a inventariare ed elencare (Vecchi cinema è quasi unicamente un elenco di sale cinematografiche milanesi che non ci sono più), o a volgere la narrazione in una trattazione (Oniroschediasmi è un trattatello-resoconto dei sogni del narratore che richiama molto da vicino Fantasmagoria), il cibo, la potenza materica e sensoriale del linguaggio (vedi Sghru), l’enciclopedismo e soprattutto l’assurdo: L’ultimo commensale racconta la storia di due personaggi che continuano a masticare e conservare vita innatural durante dei rimasugli di cibo dall’ultimo pasto in un’osteria nel suo ultimo giorno di attività pur di poter ottenere il titolo di “ultimo commensale”.

La sfida insensata fra due personaggi per ottenere un vacuo primato torna spesso in questa raccolta: che siano due parroci che vogliono essere i miglior raccoglitori di funghi o il bambino triste che vuole essere più triste del bambino tristissimo: si tratta, certo, di esplorazioni dell’assurdo, ma anche e forse soprattutto di un altro tema molto caro a Mari, ovvero il terrore dell’evanescenza dell’identità (quasi tutta Leggenda privata può essere letta in questa chiave) che cerca di ancorarsi a qualsiasi cosa per via di differenziazione fino al parossismo comico – che mostra, implicitamente, tutto il sottofondo serio e disperato che si nasconde dietro questa scrittura.

Questo tentativo di individuazione si nasconde, soprattutto, nel linguaggio, nella forma dei racconti di Mari, che forse mai come nelle Maestose di rovine di Sferopoli gioca continuamente con la variazione, sperimentando, di brano in brano, stili, modi narrativi, messe in forma diverse: il racconto epistolare, la raccolta apocrifa di aforismi, il dialogo, l’apologo, il pezzo pseudo-autobiografico (come nel commovente Come venne ricordato mio padre nel cimitero di Lambrate), il trattato delirante, il catalogo, il racconto dell’orrore, la riscrittura, il falso storico fino quasi alla barzelletta (e si potrebbe continuare ancora). E a questa proliferazione di forme corrisponde anche una continua variazione sul linguaggio: come sempre, in Mari, è la lingua a contare più di ogni altra cosa, e non per una velleità ornamentale, ma è perché è proprio il linguaggio a essere una forma di vita e di conoscenza (e esistenza) compensativa rispetto alla realtà. Della vita si può parlare solo per via indiretta, soffocandola di artifici retorici – e non a caso Mari, da sempre, scrive quasi sempre le stesse storie, per mostrare, da manierista e masochista, l’unica autenticità concepibile, quella della maschera ormai totalmente incorporata nella pelle, che se pure rende sfocata e lontana la realtà, chiarisce, forse, la verità.

Eppure questa verità sembra difficile da raccontare: come già in Leggenda privata (e come già in Rondini sul filo), si fanno evidenti le forme del frammento, dello sfilacciamento, del silenzio, della reticenza: il non detto di Tema in III C o di Con gli occhi chiusi, i “[segue]” di Scioncaccium, gli “ecc.” della Storia del bambino triste, le cancellature di Oniroschediasmi, i puntini di sospensione, l’andamento rapsodico della maggior parte dei racconti. Certo, il non-detto, il vuoto non riempito è da sempre il mezzo principale con cui Mari costruisce l’orrore nei suoi racconti, ma è qui esposto con un rilievo particolare, concretizzato graficamente sulla pagina: anche il silenzio, il vuoto si fanno materiali e concreti grazie alla fisicità della scrittura, entrano nel linguaggio, e come quello quindi vivono di una doppia tormentosa esistenza, sempre conteso fra il buio e la luce, fra la vita e la morte. Fra lo schifo e la grazia, come il gorgonzola, in un rapporto di continua ambiguità: se sono rose, sanguineranno.

Fotografia header: GettyEditorial 18-08-2021

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