“Qui il sentiero si perde” di Peské Marty – pseudonimo dei coniugi Antoniette Peské e Pierre Marty (che hanno firmato insieme anche due altri romanzi,)- dilata e complica abilmente lo spunto storico in una grande saga avventurosa. Un libro dove l’avventura si tinge di misticismo, religioni, filosofia orientali, buddismo, gusto esoterico, con uno spirito e una sensibilità del tutto novecentesca – e molto francese. Un romanzo “scandalorso” ora riscoperto che, quando uscì, nel 1955, venne bellamente ignorato…

“Cosa ne sanno dell’amore carnale coloro per cui la vita è lieve, e l’amore solo un passatempo tenero e colpevole? Ma chi è schiacciato dalla vita: gli sconfitti, i disonorati, i miserabili… questi possono dire quanto è buona la carne della donna! In questa carne, da cui hanno avuto la vita e su cui si sono rannicchiati da bambini, ancora trovano rifugio”, dice il misterioso protagonista di Qui il sentiero si perde (Adelphi, traduzione di Daniele Petruccioli) di Antoniette Peské e Pierre Marty quando, durante il suo lungo e tormentatissimo viaggio tra l’Asia centrale e la Siberia si interroga circa il rapporto furiosamente erotico, tra esaltazione, violenza, tenerezza, con una affascinate zingara che lo ha scelto fra tanti, vedendo in lui qualcosa di unico e speciale, chissà, forse riconoscendolo?

Qui il sentiero si perde

Il vagabondo, nel momento dell’amore con questa, un poco inquietante, Maluzia che sa provocargli “un godimento infernale” e lo spinge a uccidere per riconquistare la libertà, è in condizioni di schiavitù a Samarcanda. E non è un vagabondo qualunque, ma lo zar Alessadro I, autocrate prima illuminato e poi reazionario, che ha inscenato la propria morte per intraprendere del tutto in incognito una sorta di interminabile itinerario iniziatico, e non solo, nel perimetro del suo già vasto impero; come per inseguire la verità e la nudità dell’umano.

Ci sono nelle varie sezioni del romanzo alcuni bruschi cambiamenti del punto di vista, che potrebbero suggerirne anche una lettura diversa: non un solo personaggio, ma due o tre personificazioni di esso. La sostanza comunque non cambia. Sullo zar che sconfisse Napoleone e inventò la Santa Alleanza esiste infatti una solida leggenda, che si diffuse in Russia a partire dl 1825, anno ufficiale della morte del sovrano, e che la casa regnante cercò inutilmente di contrastare anche con periodiche esumazioni della salma; a cui crede peraltro qualche storico e che soprattutto interessò Lev Tolstoj inducendolo, dopo aver indagato sulla vicenda di una ex deportato in Siberia divenuto una sorta di santo popolare, a riconoscere in lui il sovrano scomparso in Memorie postume dello starets Fëdor Kuzmič. È un racconto scritto a inizio Novecento e uscito poi nel 1912, dopo la sua morte.

Antoniette Peské e Pierre Marty, marito e moglie che hanno firmato insieme con questo trasparente pseudonimo anche due altri romanzi, ne hanno certo tenuto conto, dilatando però e complicando abilmente lo spunto storico o leggendario in una grande saga avventurosa, un libro dove l’avventura si tinge di misticismo, religioni, filosofia orientali, buddismo, gusto esoterico, con uno spirito e una sensibilità del tutto novecentesca – e molto francese.

Quando uscì, nel 1955, venne bellamente ignorato, forse per il suo taglio che anticipava il pur imminente postmoderno. Riproposto trent’anni dopo sempre in Francia, entra ora nella Biblioteca Adelphi (riuscirà come spesso è accaduto, a “resuscitare” un libro dimenticato e farne un successo?): con la prefazione francese di allora, che per la verità si limita a evocare l’immagine di un “romanzo western” paragonando l’immenso Oriente tra Asia e Siberia al selvaggio occidente americano come terre di frontiera dove può accadere di tutto.

È un suggerimento non certo privo di senso, ma molto parziale, perché la grande avventura di Alessandro non è solo scandita da eventi materiali e lotte traumatiche (la schiavitù, la violenza, l’omicidio, l’amore – anche omosessuale – le peregrinazioni fra boschi e montagne selvagge, le distese di neve, la furia degli elementi, la lotta per la sopravvivenza, i cavalli, i cercatori d’oro, gli incontri con popoli lontani fra mongoli, tagiki, uzbechi, persino cinesi, i forzati e i banditi, i fuggiaschi e i senza patria) ma ha anche una trama che si potrebbe definire spirituale. Lo zar pellegrino è attirato dalle sapienze d’Oriente, nei cui confronti nutre peraltro una grande diffidenza.

A un certo punto del viaggio giunge a chiedersi se gli “occidentali delusi” che, “aspettandosi chissà quale rivelazione, interrogano quel paese leggendario, i popoli ignoti dell’Oriente, portatori, si crede, del seme misterioso da cui risorgerà l’età dell’oro” non si rendano conto di come gli orientale siano “ahimè, solo più avanti nel marciume rispetto all’Occidente”. A una svolta decisiva, verso la fine, non solo apprende però da un Lama, apprezzandole, le dottrine del Buddha, ma impara ad eseguire terribili rituali tibetani ed anzi evocare demoni, mentre fra sogno e realtà risuonano in lui come una forma di estremo spavento il “Dio è morto” di un Nietzsche ancora a venire; e anche le parole di un saggio musulmano che gli diceva: il Dio verso cui ritorni è il nulla.

Va detto che troppa attenzione alla impalcatura filosofica e alle sue derive un po’ segnate dai luoghi comuni esoterici del Novecento rischia però di far torto al fascino vero in questo libro atipico e un poco scandaloso, che è quello dell’avventura, di una narrazione incalzante, a volte disordinata, a volte scatenata e – anche retoricamente – popolare, persino sovreccitata; si direbbe salgariana, tra conte philosophique e feuilleton.

Il prefatore francese dell’edizione 1985 lo accosta a un libro ottocentesco di autore ignoto, La vita di un pellegrino, ma anche per chi non abbia particolarmente approfondito la letteratura russa, mano a mano chi ci si addentra in Qui il sentiero finisce molte pagine e persino certi episodi specifici sembrano evocare irresistibilmente un classico meraviglioso come Il viaggiatore incantato di Nicolaj Leskov (entrambi i testi sono disponibili tra l’altro in belle edizioni adelphiane): dove un monaco narra, durante una traversata del lago Ladoga (vicino ai confini con la Finlandia), le sue incredibili imprese di avventuriero nell’Asia centrale, anche in questo caso fra duelli rusticani, cavalli, zingare affascinanti e inquietanti, senza contare gli omicidi.

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Il tono è però quello di un allegro spaccone, che può essere creduto o non creduto. Niente di picaresco, invece, nell’Alessandro di Peské-Martin, che pure entra a far parte, passando dalla Senna, del mondo di viaggiatori incantati – non necessariamente russi. Gli autori, che dovevano comunque avere se non una diretta esperienza una buona conoscenza mediata del paesaggio siberiano e mongolo, dei regni asiatici poi inglobati nell’impero zarista (e una memoria famigliare: Antoniette Peské era figlia di due artisti russi emigrati a Parigi), hanno avuto un destino letterario finora piuttosto avaro. Pierre Marty non era un letterato o un intellettuale pubblico ma un giurista, appassionato di filosofie orientali.

Antoinette Peské ha goduto appena di un poco di fortuna in più, esordendo come poetessa apprezzata per esempio da Guillame Apollinaire. E se i suoi romanzi, L’insaisissable rival (1924), La boîte en os (1941, tradotto per Irradiazioni nel 2010) ebbero sì qualche attenzione – venne avvicinata ad esempio a Emily Brontë -, restò tuttavia un’autrice di nicchia.

Dopo la scomparsa del marito non scrisse più nulla, morì nel 1985. Le Monde del 10 ottobre le dedicò un doveroso necrologio, ma in condivisione: nello stesso articolo si ricordava anche il nostro Riccardo Bacchelli.

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