Un ritratto, o meglio un dialogo, con quella figura paterna che il Novecento ha cercato in ogni modo di “uccidere” e a cui sembrano essere tornati molti autori contemporanei, nel segno della fine del conflitto, della pacificazione, di un’intimità ritrovata. Ma il memoir “Invernale” di Dario Voltolini è soprattutto una preghiera per il padre, che suona come un deliberato esercizio di pudore…

Il mercato torinese, soprattutto al sabato, pare “una versione insurrezionale della borsa di Wall Street” tra la grande confusione, l’allegria, lo spintonarsi, l’animazione in apparenza caotica della folla e soprattutto quella dei venditori, che con velocità e precisione devono coordinare ogni movimento per servire i clienti e intanto preparare le merci.

Uno di questi è il padre di Dario Voltolini, e al suo banco di macellaio si apre Invernale (La nave di Teseo): un ritratto o meglio un dialogo con quella figura paterna che il Novecento ha cercato in ogni modo di “uccidere” e a cui sembrano essere tornati gli autori, soprattutto maschi, più contemporanei (ma non solo maschi, penso a Se mi tornassi questa sera accanto di Carmen Pellegrino): nel segno della fine del conflitto, della pacificazione, di un’intimità ritrovata. Nel caso di Voltolini, siamo a una preghiera per il padre, che suona intanto come un deliberato esercizio di pudore: senza sentimentalismi, senza il linguaggio delle passioni ma con una testarda interrogazione sul senso misterioso dell’accadere.

Alla figura paterna (scomparsa prematuramente, e non è certo un dettaglio secondario) già era dedicato l’incipit del romanzo in versi Pacific Palisades, dove si intuiva il legame stretto tra geografia e genealogia, tra luoghi ed esperienza vissuta: “Il 2 giugno del 2015, Festa della Repubblica Italiana e giorno in cui,/ nel 1932, nacque mio padre,/ piazza Pitagora, a Torino, dopo il tramonto,/ era satura del profumo dei tigli”.

Anche in Invernale c’è ovviamente Torino (il grande mercato è quello di Porta Palazzo), con le sue periferie, i casermoni, l’ombra della grande fabbrica, il traffico che scorre attento a rispettare gli orari, ma non come sfondo, semmai come una sorta di correlativo oggettivo. Questa Torino di anni ormai lontani è la città del padre, il suo mondo regolato da una forma di esattezza, triangolato fra la casa con le finestre di alluminio dove ritorna sera, il campo da calcio dove è stato da giovane una promessa, il mercato, il suo vero regno, dove affetta e squarta, taglia (e si taglia), organizza perfettamente le carcasse degli animali che diventano costolette o fettine, danza con gli strumenti e con la bilancia, cede a fine giornata una montagna di scarti a un gruppo di zingari che lo incontreranno per caso sulla spiaggia ligure festeggiandolo come un grande amico tra bagnanti un poco scandalizzati – l’altro sua modo di riposarsi è di andare a caccia.

invernale dario voltolini

Non è del tutto un borghese, non è più un uomo del popolo, è un commerciante di peso che non lo fa pesare a nessuno. Rispetto alle vulgate e alla sensibilità animaliste di oggi potrebbe non risultare troppo simpatico; invece lo è, nel suo riserbo. L’incipit del libro che lo descrive nel cuore del mercato ne mette in scena anche l’apoteosi, coraggiosamente e senza eufemismi, come officiante di un rito sacrificale. Quando si affaccia la malattia (prima come un sospetto poi come qualcosa che si può curare, infine come fatale condanna) si apre una leggera intercapedine come trasognata fra l’esistenza e la realtà intorno. “L’atto della macellazione ha ora in sé qualcosa che non si può vedere ma c’è: un incremento della sacralità e del rispetto che c’erano sempre stati. Questo fa sembrare, o addirittura essere, la bolgia del mercato, in quella sfera di qualche metro di raggio con al centro lui, meno generatrice di rumore”.

Si manifesta un silenzio, magari breve, a tratti, per epifanie; comincia il tempo dell’impensabile – per lui e per quanto gli stanno intorno. Voltolini sembra chiedersi che cosa gli rimanga di questo padre morto giovane, cinquantenne, e rifugge da risposte facili. Quel che resta è infatti un “tutto” indefinibile, ma in particolar si direbbe il gusto anzi la disciplina delle precisione, quella del macellaio, e quella del calciatore, e infine quella della paternità, che resiste nel tempo della malattia conclamata alla “stanchezza, o per meglio dire, questa specie di noia che lo prende”. Ma lui che “in allenamento ha incontrato Sivori di persona” conosce l’importanza, almeno secondo il figlio, di aver “appreso certi gesti di tecnica, aver provato a riprodurli, esserci talvolta riuscito”. Conosce la bellezza della traiettoria, la palla che deve andare esattamente in un punto del campo in quel momento neppure visibile al giocatore, e ci va, proprio come le fette di fegato che vanno sulla bilancia con naturalezza ed eleganza, nel giusto peso indovinato d’istinto.

Quest’idea della precisione come argine esistenziale e breve felicità accomuna curiosamente il libro di Voltolini ad Abel di Alessandro Baricco, l’amico con cui ha lavorato e lavora; come se entrambi avessero scritto storie diversissime beninteso, collegate però da un’eco, da un comune sentire.  Ma può ricordare anche, andando indietro di una decina d’anni, quella Geologia di un padre di Valerio Magrelli dove il poeta, nella forma del romanzo, raccoglie varie documentazioni e appunti sul genitore ormai scomparso, nel segno di una continuità e di un passaggio di testimone, di una chiamata a diventare “sempre più simile a lui”, in ultima analisi a vivere e morire, come lui.  E a farlo proprio, ovvero a “bloccare temporaneamente l’ordigno” – siamo tornati a Voltolini – che potrebbe esplodere dentro perché, poniamo, quando lui spirava noi eravamo altrove.

Invernale si congeda dal lettore con una pagina tutto sommato commovente, dove il pudore estremo della narrazione un poco si allenta. Salutatemi Dario, aveva detto il padre mentre moriva: e Dario, sia come autore sia come voce narrante – a questo punto coincidono – sa che in lui “l’ordigno stava per deflagrare”, ma non è stato così. Il saluto del padre, quasi una benedizione pudibonda e laica, lo ha bloccato proprio “lì dove è tuttora, ma io ci sono ancora”. Senza certezze e senza “nessun dio fasullo”, talché infine “quello che mi sembra l’atto più simile alla preghiera posso permettermelo solo rivolgendomi a lui”

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