“Dove la luce” di Carmen Pellegrino è un romanzo molto attento all’attualità sociale e alla cronaca politica (e criminale) dell’ultimo mezzo secolo e oltre, la cui domanda implicita sembra consistere in una enigma affidato al lettore, come dev’essere nella buona letteratura: che ne è di quei padri, delle “colline d’oro”? E soprattutto i figli, ora, sono all’altezza almeno dei loro errori?

Noi, “figli dei figli di un miracolo” scrive Carmen Pellegrino nell’incipit di Dove la luce (La Nave di Teseo, tra gli 82 libri proposti per il Premio Strega 2024, ndr), “credevamo di essere salvi” e cioè finalmente liberi da costrizioni non solo materiali; anzi “ingagliarditi dalla salvezza”, pronti “a scoprire qualcosa di bello e più profondo della vita stessa”.

Non è stato così, né forse poteva esserlo; anche perché “nessuno ci aveva avvertito che eravamo perduti all’origine”.

C’è tutto il nuovo libro fra una pagina, questa, e il titolo stesso, da una poesia di Ungaretti del 1930, che già pare una sicura indicazione, come del resto accade da sempre in un’autrice che ama i poeti e fa buon uso nella prosa misuratissima, a volte accesa e tuttavia mai inutilmente lirica, dei loro versi.

Carmen Pellegrino Dove la luce

Il tema dei figli si articola con quello del “dove”: “Dove non muove foglia più la luce,/ Sogni e crucci passati ad altre rive,/ Dov’è posata sera,/ Vieni ti porterò/ Alle colline d’oro”; e già  questa porzione di versi che Pellegrino peraltro non cita ma cui certamente allude, e vanno letti in filigrana, sembra indicare il percorso del personaggio principale, la cui storia fa da intelaiatura a un romanzo dal passo saggistico: Federico Caffè, l’economista di scuola keynesiana, grande protagonista della prima Repubblica, scomparso misteriosamente, ma per sua scelta, nell’aprile dell’87. Se ne andò via dalla casa romana senza portare nulla con sé, a 73 anni, forse fiaccato dalle delusioni davanti a un Paese che cresceva sì ma non nel senso egualitario da lui voluto e insistentemente predicato, come per ritirarsi dal mondo.

Si fecero allora molte ipotesi (per esempio che si fosse rifugiato in un convento, anche perché non si trovarono prove nemmeno di una morte accidentale o volontaria, posto che non venne mai rinvenuto il cadavere), senza mai giungere a una risposta certa. Anche Dove la luce ne propone una, dichiarandola apertamente come finzionale: l’economista segue verso un luogo abbandonato, come per tappe d’iniziazione, un senzatetto di cui è diventato amico. E in quel luogo, finalmente, si perde al mondo, attua quella che con un termine di Simone Weil la Pellegrino definisce “decreazione”, qualcosa che ha strettamente a che fare con la sua poetica dei luoghi abbandonati che risuona in tutti i suoi romanzi, dal borgo dei fantasmi in Cade la terra) alla, poniamo, “casa dei timidi” in La felicità degli altri.

Non siamo a una poetica delle rovine di matrice romantica, semmai a una forma di carità per il vivente quando quasi non è più tale: quando sta completando – e torniamo a Dove la luce – il suo processo di “decreazione”, parola chiave e anch’essa tematica del libro. La decreazione è intesa dalla Weil come “rendere a Dio” quel “potere di dire io” che è l’unica cosa che abbiamo. Non nel senso di annullarsi misticamente, ma per la Pellegrino in quello whitmaniano, semmai, di “contenere moltitudini”. È il programma, la strada che si traccia in Dove la luce nell’avvicinare la vicenda di Caffè, che non a caso finirà i suoi giorni nella timida sacralità di un luogo appunto abbandonato: non senza aver scritto molte lettere a una certa Adolphine, di cui presto il lettore comincia a sospettare l’identità – e non sembra per ora il caso di rivelargliela anticipatamente, in fondo è una delle sorprese narrative del libro.

La sacralità dei luoghi abbandonati non riguarda però la sola dimensione spaziale, di rovine o giardini incolti o paesi deserti. Ha a che fare col tempo e con le generazioni che ci hanno preceduto: in cui immergersi per ascoltare, non la storia di un fallimento ma di promesse fatalmente tradite. Ai più giovani tocca in qualche modo negoziare con ciò che resta delle grandi speranze dei padri e dei nonni, quei “padri del Novecento” (compreso il suo, amatissimo, fiero militante socialista arroccato ora in campagna, volterrianamente, a coltivare il giardino) che, scrive Carmen Pellegrino verso la fine, “hanno puntato a costruire una sostanza umana diversa”, e il mondo forse non sono riusciti a cambiarlo – ma a migliorarlo un poco si direbbe certamente sì.

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Accanto e dopo la vicenda di Caffè scorre la storia, con i suoi orrori, la sua violenza, in una deriva che pare non finire, mentre cambiano i tempi e le utopie pensate allora – e in parte rese tuttavia concrete – si sono sgretolate. Dove la luce non è una trenodia, non contempla una catastrofe. È un romanzo in prima persona (la terza, come nella vicenda di Caffè, pare usata per procura), molto informato, molto attento all’attualità sociale e alla cronaca politica (e criminale) dell’ultimo mezzo secolo e oltre, la cui domanda implicita sembra consistere in una enigma affidato al lettore, come dev’essere nella buona letteratura: che ne è di quei padri, delle “colline d’oro”? E soprattutto i figli, ora, sono all’altezza almeno dei loro errori?

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