“Figura simbolo degli orrori dell’Italia, una creatura di carne e ossa che tutti li racchiude”. Antonio Franchini ha dedicato un libro “durissimo, senza concessioni eufemistiche ai buoni sentimenti”, e al tempo stesso “amaramente comico”, alla madre Angela. Mario Baudino ha letto per ilLibraio.it “Il fuoco che ti porti dentro”

Chi è veramente Angela, una “figura simbolo degli orrori dell’Italia, una creatura di carne e ossa che tutti li racchiude”, o semplicemente una madre se pure “di rabbia e furia”?

Angela è la protagonista debordante del nuovo romanzo di Antonio Franchini Il fuoco che ti porti dentro (Marsilio): e, nella linea autobiografica di uno dei nostri scrittori migliori ed imprevedibilmente elusivi, è il cuore di un libro davvero “di rabbia e furia”, dove si staglia una immagine materna che sembra andare oltre al suo stesso personaggio. Angela, che pure sembra così leggibile è anche un enigma.

È il Sud atavico e rancoroso (“Questo senso d’inferiorità dello zappatore, che si rove­scia nel suo contrario, è lo stesso di Angela, è lo stesso di tutto il Sud”), è autoriflessa e ostile, riversa sul mondo e sulla famiglia la sua “ferocia” assolvendo se stessa.

Il fuoco che ti porti dentro di Antonio Franchini

Ma è anche un modo d’essere che va oltre, qualcosa che ha a che vedere con la vita e con la morte dell’autore stesso, o meglio sulle riflessione dell’autore circa la vita e la morte, soprattutto sui corpi e la loro spietata carnalità, corpi atletici che chiedono sforzo ed esercizio e rifondono regalando una breve felicità, corpi dilaniati dalla vecchiaia o dalla chirurgia, corpi smaglianti eppure pervasi ed emananti di odori di putrefazioni, corpi travolti – e il pensiero qui potrebbe andare al Mario Luzi di Su fondamenti invisibili -, nel “gorgo di salute e malattia”: quello che Franchini interroga da sempre nei suoi libri. Penso a Signore delle lacrime o naturalmente all’Abusivo, – dove già Angela compare con qualche saggio della sua tremenda potenza – ma anche in filigrana a Il vecchio lottatore e altri racconti postemingueiani.

Come il lottatore sportivo, qual è del resto nella vita, Franchini è scrittore di fedeltà ad alcune regole che però, proprio come accade nel confronto delle arti marziali, lasciano la possibilità di seppur minime, a volte impercettibili ma spesso decisive, variazioni.

Qui la lotta con la madre diventa in tutta evidenza anche una lotta con se stesso, l’avversario è nello stesso tempo reale e simbolico, il confronto potrebbe chiamare in causa quello biblico con l’angelo, una ferita vera e persino una incerta, ipotetica, dubbiosa benedizione finale.

Come il Rilke della prima duinese, questo libro sa che “Ogni angelo è tremendo:E dunque io mi contengo, e serro in gola il richiamo d’oscuro singulto”, continua il poeta. Così Franchini, in un contesto dove contenersi è davvero difficile, anzi per qualche aspetto è impossibile. Anche lui, in questa sfida, ha ceduto all’ira, persino a quella fisica che si ammanta di una subitanea violenza. L’ira è il fuoco che ci si porta dentro, è qualcosa come una possessione, in quanto tale immotivata. Ne caso specifico è il carburante di un romanzo durissimo almeno nella prima parte, quella in cui l’autore si “vergogna” della madre, anzi prova “schifo” per chi l’ha messo al mondo, in altre parole sembra partecipare di quell’ira e della stessa ferocia “che lei riversa contro il mondo assolven­do se stessa”.

La detesto da sempre, da quando la mia vita ha comin­ciato a staccarsi dalla sua e si è aperta sul mondo, perché ci ho messo poco a capire che il mondo giusto – quel luogo inesistente che i giovani sognano e alcuni adulti idealisti si impegnano a fargli credere che esista – faceva, diceva, pen­sava tutto ciò che mia madre non faceva, non diceva, non pensava”, riflette quando ormai il tempo di Angela è trascorso, e lui la vede avviarsi torvamente verso la morte. Il conflitto cala appena di intensità, si aprono degli spazi di riposo o di riconoscimento reciproco, addirittura qualche barlume di una tenerezza dissimulata: perché alla fine la tragedia di Angela è di “non essere stata capace di dimostrare l’amore”. “E forse – ammette lo scrittore – è anche la mia”.

Al momento della morte e del funerale, lo scioglimento è nel senso di una malinconia metafisica. E quando leggiamo il breve capoverso che dice semplicemente “Le ceneri di Angela sono arrivate a Napoli, come voleva, e le hanno messe vicino ai resti di mio padre”, viene da chiedersi se per caso non si stia alludendo, forse come segnale inconscio, al celebre romanzo di Frank McCourt. L’Angela di quel libro dolente ma ottimistico era una ragazza irlandese ovviamente povera e rassegnata a una famiglia caotica e famelica, che fissava le ceneri del focolare. Questa Angela della borghesia napoletana, benché sia figlia del popolo e porti con sé i ricordi della povertà, rassegnata non è per nulla, e neppure è stata travolta dal mondo. Semplicemente dopo l’Università è stata sommersa e posseduta da una sorta di egoismo individualistico e da un rancore che è anche sociale, che è parte di una cultura. Lei lo ha portato alla forma compiuta del romanzo, gli ha dato una lingua e una scena, tutta sua.

Il fuoco che ti porti dentro è un libro durissimo, senza concessioni eufemistiche ai buoni sentimenti, un atto d’accusa implacabile che non si chiude con una condanna, perché la condanna è già implicita, la condanna è nella natura del rapporto. Ed è, con questa è una mossa stilistica assai persuasiva, amaramente comico: perché Angela, che insulta chiunque, a partire dalla propria madre, sospetta di chiunque, vorrebbe sopraffare chiunque, detesta soprattutto le altre donne a vario titolo definite con una  gamma semantica che si irradia dal termine “zoccola”, in realtà viene spesso ritenuta simpaticissima dagli estranei o da chi in ogni caso non ha stretti rapporti con lei.  Proprio nel delineare queste contradizioni fra il percepito del figlio e quello del mondo – chi dei due sta sbagliando? -, Franchini, nella sua fenomenologia della madre divoratrice, fa un ampio uso del dialetto napoletano, non solo ibridando la scrittura ma usandolo per lunghi monologhi interiori (o in questo caso esteriori) con risultati diseguali. Da un lato se ne capisce e condivide la necessità contestuale, di grammatica narrativa, dall’altro però, almeno a mio sommesso parere, sembra appesantire il dettato: e in uno scrittore che proprio di una esatta, intensa limpidità ha fatto nel tempo la sua cifra.

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Fotografia header: Antonio Franchini, direttore editoriale del gruppo Giunti (foto di Francesco Giusti)

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