Già direttore editoriale della narrativa Mondadori, l’autore ed editor Antonio Franchini, attuale direttore editoriale di Giunti Editore, torna in libreria con la raccolta di racconti “Leggere possedere vendere bruciare”, in cui gioca coi ricordi, ma lo fa da scrittore e non da memorialista… – Ne parla su ilLibraio.it Mario Baudino

Gli aneddoti sono esilaranti, ma quello di Antonio Franchini non è certo un libro di aneddotica editoriale. Leggere possedere vendere bruciare (Marsilio), è la storia della sua “vita di lettore” per lavoro e per piacere, lettore di manoscritti e di classici, editor consapevole che “chi ha lavorato molto da vicino con gli scrittori è l’oste­trica che sa come nascono i bambini”, mentre “chi legge i libri stampati fa fatica a immaginare che i neonati veri siano diversi da quelli che si vedono nelle pubblicità dei pannolini”.

Non si tratta solo una metafora, posta che lo stesso termine, editor, affonda le sue lontane radici etimologiche nel latino “edere”, che significa anche tirare fuori e partorire. Il tema è peraltro caro a Gian Arturo Ferrari, per anni alla guida della Mondadori dove Franchini ha trascorso gran parte della sua vita professionale scoprendo non solo ottimi autori ma lanciando celeberrimi bestseller italiani, e che in questo libro – come potrebbe essere diversamente – compare talvolta in veste di bonario mangiafuoco; anche se negli anni Ottanta, quella che Franchini definisce un po’ ironicamente l’epoca d’oro dell’editoria, prima dei comitati editoriali di Segrate, “alcuni di noi” racconta alludendo ai più giovani terrorizzati dal grande capo, “assumevano psicofarmaci”. Lui l’ha scoperto dopo, dice, “ma ho pensato spesso, almeno quando non ero coinvolto in veste di vittima sacrificale, che per partecipare sarei sta­to disposto anche a pagare un biglietto, e forse a volte an­che quando la vittima designata ero io”.

Franchini gioca coi ricordi, ma lo fa da scrittore e non da memorialista: scrittore, secondo una convincente definizione di un critico come Raffaello Palumbo Mosca, per il quale “al di là di ogni tema possibile, ricorrente o occasionale, l’origine e il fuoco della scrittura… è la rappresentazione e il commento di una costante lotta contro il limite”.

Ciò è vero per tutti i suoi romanzi e i racconti, e lo è anche in questo caso, dove la misura del narrare viene duplicata in una riflessione sul racconto stesso. Il nuovo libro ripropone infatti, accanto a testi ovviamente inediti, scritti già usciti anche parecchi anni fa (come Lettore di dattiloscritti, che risale al 1988, o le Memorie di un venditore di libri, pubblicato con altro titolo nell’antologia einaudiana Disertori, che è del 2000) ma come chiosati, proseguiti, rivisti e commentati con nuovi spezzoni narrativi (per esempio per dirci che ne è stato poi del mitico venditore Prospero Falanga e del suo sdrucito cappotto, si direbbe non immemore di un Gogol riletto con ironia napoletana), in altre parole inseriti e fatti risuonare in una diverso contesto, interpellati con un nuovo sguardo: quale poi sia, ce lo suggerisce lo stesso passo narrativo di un autore-editore (è difficile separare i due aspetti) ora alla guida della varia per il Gruppo Giunti, che si interroga sul senso del “mestiere”, da una parte, e su quello dei libri, dall’altra.

Antonio Franchini Leggere possedere vendere bruciare

Leggerli, possederli, annientarli, persino bruciarli; che mai rappresenterà in una vita spesa per essi, con essi, e per gli scrittori, e con gli scrittori, quelli vivi e quelli morti? In altre parole, quel è il limite contro il quale si sta lottando? La figura del lottatore è centrale nel suo lavoro, basti pensare alla raccolta appena precedente dei racconti “postemigueiani” o a un libro di riflessione al limite del metafisico e quasi incorporea come Signore delle lacrime (2010).

Lottatore è il “funzionario editoriale”, che con le sue scelte determina in fondo anche quelle dei critici contemporanei e a venire – ma potrebbero essere scelte sbagliate; ed è incerto – o tale si mostra – se affidarsi al proprio gusto o a una lucida razionale valutazione (anche di mercato)? “Molti della mia generazione – scrive -, schiacciati dalla mitologia creatasi sui nostri predecessori, presentati sempre come cavalieri delle ragioni dell’arte riottosi a fare i conti con il mercato e obbligati semmai a confrontarsi solo con l’ideo­logia, sono stati allevati nella convinzione che i buoni libri non contassero, ma, perlomeno i migliori o i più dignitosi tra noi, non ci hanno mai creduto fino in fondo”. Lui per primo, anche se per pudore si ritaglia una dose di ambiguità.

Franchini è un “cinico sentimentale” (come editor e come scrittore), che intanto ci avvisa non essergli mai dispiaciuta una definizione del genere. E nei suoi racconti pare, in tutta coerenza, di intuire, avvicinato, corteggiato, allontanato, persino strumentalmente ingannato con le armi dell’ironia o di un cauto cinismo qualcosa di molto difficile da definire, qualcosa che ha a che fare col destino dei libri – e degli autori, e magari di tutti noi. Poi, ci si diverte, va da sé, perché è questa la cifra dell’ossimoro. Ecco allora Rossana Ombres, romanziera e poetessa scomparsa nel 2009, “versione in carne, ossa e capelli di Maga Magò” che tiene ferocemente testa a volgarissime provocazioni maschili come quella di Domenico Rea in occasione dello Strega del ’93, da lui vinto con Ninfa Plebea – edito da Leonardo, ma col sostegno silenzioso della Mondadori. La Ombres, pubblicata proprio da Segrate, forse capì l’antifona; si candidò autonomamente e si classificò addirittura prima nella cinquina. Non significava molto, ma Rea ne fu assai preoccupato e si esibì in qualche atroce sberleffo napoletaneggiante, come per esempio la riservatissima proposta, che le fece per via telefonica, di concedersi carnalmente in cambio del suo ritiro dalla competizione. La risposta fu raggelante: “Rea, tu hai settant’anni e non sei Sgarbi. Se ti levi da mezzo tu, vengo a chiavarti io!” Indomita Maga Magò – e scrittrice che intanto andrebbe riletta. Al Campiello dello stesso anno sarebbe stata invece affrontata da Aldo Busi, che durante una cena di gala, dopo averla chiamata Pivano e da lei corretto, infierì dicendole: “Ombres? Ma non eri morta?”. Nonostante i risolini soffocati tutto intorno, lei “non fece una piega”. Le angherie però continuarono: a tavola, Busi le lanciava di tanto in tanto, non certo con tono sommesso, beffarde provocazioni, per esempio ripetendole che lui stava lavorando a Cazzi e canguri ma lei non avrebbe mai potuto scrivere un libro con un titolo del genere. La Ombres, zitta, “fremeva come un giunco squassato dai venti”. Ma stava preparando l’artiglieria. Dopo il caffè, finalmente, “lo apostrofò stentorea”, fulminandolo: “Se tu scriverai Cazzi e canguri, io scriverò Fiche e dobermann!” Poi “senza incespicare ma sempre traballando” salì sulla lancia che l’avrebbe riportata in albergo. Altri tempi e altre tempre? Il commento di Franchini è cinico e sentimentale, come d’ordinanza: “Immaginai nei ruoli di Mimì Rea e della Ombres differenti, possibili coppie di scrittori e scrittrici miei coetanei, ma no, non ce li vedevo. Non ce li vedevo proprio”.

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