Si è chiusa la 78esima edizione festival d’Avignon, centro della scena teatrale mondiale, quest’anno diretto da Tiago Rodrigues (lingua ospite lo spagnolo e artista complice Boris Charmatz). La manifestazione merita il massimo dei voti per varietà e qualità della proposta, capacità di interagire col presente e con il pubblico. Su ilLibraio.it il racconto (con tanto di voti) di 21 spettacoli visti. A spiccare, a sorpresa, è “Reminesciencia” di Malicho Vaca Valenzuela, giovane autore cileno rivelazione inattesa e travolgente di questa edizione…

A riveder le stelline

Sommario dei giudizi (e analisi di una folgorazione) dal Festival d’Avignone 2024

Non si fa! Non si fa! Non si può fare! Non si deve fare! (Ma lo fanno tutti? No). Le classifiche sono un giochino sterile, la critica non può ridursi a un giudizio semaforico. Le stelline non sono brillanti, le palline si sono rotte e i cuoricini spezzati. Non ha senso dare un voto a un’opera d’arte, il giudizio è sempre soggettivo, aleatorio, viziato. La critica oramai è priva di rilevanza… E certe stroncature – superficiali, liquidatorie, parassitarie – proprio non si dovrebbe scriverle (ditelo ad Angelica Liddell, che ne legge un bel po’ con disprezzo e sottile compiacimento, facendo nomi, cognomi e testate, nella prima parte del suo spettacolo, prendendosi gioco del “critichese” con lo stesso spietato piacere sadico per cui mette alla gogna i detrattori selvaggi).
Va bene, va bene: eppure guardare è assumere un punto di vista, esprimere un giudizio, paragonare, classificare. Magari sull’onda del momento e dell’umore. Magari influenzati da gusti e pregiudizi. Magari sbagliando, travisando le nostre stesse intenzioni (e senz’altro spesso quelle degli artisti) e tradendo le nostre disattenzioni (etiche, estetiche, umane) di mortali e fallaci spettatori.

Eppure poi un’occhiatna al Morandini e al Mereghetti la diamo tutti, quando vogliamo vedere un vecchio film, o esigiamo una verifica spietata (sì/no) con un amico fidato prima di pagare il prezzo di una platea o investire il nostro tempo/attenzione nel buio della sala (ancora Liddell, ficcante, insopportabile e adorabile insieme: “Il teatro è tempo“).

E, comunque, nel silenzio del nostro umbratile, ondivago e imperfetto parlamento interiore, abitati dalla sala comandi emozionale, idiosincratica, supponente e volubile che governa il nostro “Inside Out”, una votazione la facciamo sempre, anche quando siamo attirati e compiaciuti dall’astensione, da un ideale sguardo oggettivo e inclusivo fondamentalmente impossibile. Per quanto aperti a ravvedimenti, emendamenti, revisioni, sappiamo bene che cosa ci ha entusiasmato, quello che ci è indifferente e le cose trovate insopportabili. E quando anche vogliamo essere analitici, complessi e sfaccettati, puntuale la domanda emerge irrevocabile: ma allora ti è piaciuto o no?

Perciò rendo pubblici, con spietata e grossolana sintesi, presunzione giocosa e provocatoria (Liddell docet, e tre), stelline e voti (super opinabili come le classifiche del NYT), e qualche nota scarna su genere di appartenenza, spettacolo in estrema sintesi, momento/i folgorante/i (quel che rimane) dei più di una ventina spettacoli visti (praticamente tutti: vi risparmio quelli di danza per mio limite, e un paio mancati) ad Avignone (28 giugno-21 luglio).

Ecco dunque le mie personali stelline (da una a cinque, come il Guardian, bisogna pur fissare in alto l’asticella), con anche una versione scolastica in voti (per avere una scala più sensibile e precisa). Così, almeno a questa domanda, almeno per ora, ho risposto.

In ordine di programmazione al 78esimo festival d’Avignon, centro della scena mondiale, il più bello che c’è (cinque stelle brillanti ***** e 10 e lode), diretto da Tiago Rodrigues (lingua ospite lo spagnolo e artista complice Boris Charmatz). La manifestazione merita il massimo dei voti per varietà e qualità della proposta, capacità di interagire col presente e con il pubblico.

Un momento su tutti: la Nuit d’Avignon, evento di confronto, resistenza e presa di parola messo su nottetempo nel frangente più delicato,fra primo turno e ballottaggio delle elezioni in Francia. Un segno luminoso di coraggio e vitalità.

Uno spazio più ampio e analitico lo dedico infine al mio colpo di fulmine della programmazione ufficiale, Reminesciencia di Malicho Vaca Valenzuela, un giovane autore cileno, rivelazione inattesa e travolgente di questa edizione.

Absalon, Absalon ! Séverine Chavrier, 2024 © Christophe Raynaud de Lage / Festival d'Avignon

Absalon, Absalon ! Séverine Chavrier, 2024 © Christophe Raynaud de Lage / Festival d’Avignon

Absalon, Absalon! di Séverine Chavrier

Voto 7/8 – ****

Genere: vorrei essere Milo Rau, ma ho una mia voce.

In sintesi: Faulkner sulla nascita di una nazione riscritto e imploso in cinque ore di teatro totale della talentuosa direttrice della Comédie de Genève, che conferma un’ambizione e una complessità piuttosto ipertrofiche e spesso notevoli, mescolando la storia faulkneriana con improvvisazioni, anacronismi, intuizioni.

Quel che rimane: l’uso geniale del video in diretta, l’utilizzo potente e rischioso degli animali in scena, la complessità dei piani narrativi e del dispositivo scenico, architettura su molteplici livelli. E il naufragar è esaltante in questo oltreoceano. Non sono convinto che rileggere Faulkner cambi/aiuti poi tanto a non perdersi. Fa parte del gioco.

Dãmon. El funeral de Bergman di Angélica Liddell

Voto 7 e 1/2 – ****

Genere: stand-up invettiva, con sedie a rotelle.

In sintesi: bidè pubblico nel/sul Palazzo dei Papi; odio e messa alla gogna dei critici; invettiva sulle miserie di uomini e spettatori; coreografie per carrozzine, lettighe e cateteri; vecchi, nani e terroristi; corpi nudi e accenno di masturbazione papale… Eppure molto meno gratuito e molta più grazia (e interrogazione, senso del momento e dello spettacolo) di quello che sembra.

Quel che rimane: la pioggia leggera che, alla prima, accoglie una battuta molto bella della provocatrice-sciamano: “Il teatro è tempo. Il tempo uccide“. Tempo non perso. A tratti irritante, a momenti geniale, che comunque lavora dentro per giorni.

Hécube, pas Hécube di Tiago Rodrigues

Voto 9+ – *****

Genere: quel che (ci) resta del tragico.

In sintesi: il cast della Comédie Française prova per fare Euripide; l’attrice principale chiede giustizia per un figlio autistico maltrattato in un’istituzione che avrebbe dovuto proteggerlo; il dolore della madre contemporanea e quello della madre personaggio s’illuminano e danno voce a vicenda, e una terza trama, quella di un cane che cerca, cerca e non trova, abbaia e fa eco/Ecuba nella Carrière de Boulbon risuona nella notte.

Quel che rimane: la statua misteriosa di un cane senza una zampa, l’eco del dolore che si replica e si ripercuote nelle vicende degli uomini (e delle donne); l’ironia e la simpatia come respiro umanista del teatrobdi Rodrigues, cuore nascosto di compassione e via di ricerca continua, di resistenza, forse di salvezza; un cast in stato di grazia (su tutti Elisa Lapoivre e Denis Podalydès).

LACRIMA di Caroline Gueila Nguyen

Voto 7 – ***

Genere: melò a orologeria

In sintesi: la realizzazione (impossibile, certosina e segreta) del velo per le nozze della principessa d’Inghilterra, ma dietro al lavoro, le lacrime e il sudore dei personaggi, la storia (personale e colletiva) femminile a tessere una trama scritta con grande precisione. Forse troppa per non risultare un filo algida.

Che cosa rimane: un teatro costruito drammaturgicamente con la forza agganciante di una serie televisiva, una finestra rivelatrice sulla storia culturale femminile del ricamo.

Quichotte di Gwenaël Morin

Voto 7/8 – ****

Genere: picaresco libero e libertario.

In sintesi: grande prova di gioco (recitazione e libertà) di Jeanne Balibar che, con i suoi bizzarri compagni di viaggio, un po’ freak e un po’ giullari, ci racconta la sua (folle?) battaglia, e ci fa diventare tutti mulini a vento, complici, vivi e immaginari.

Che cosa rimane: la necessità assoluta, oggi come non mai, di cavalieri erranti, e la prova attoriale assoluta della Balibar.

Une Ombre vorace di Mariano Pensotti

Voto 7 e 1/2 – ****

Genere: alpinismo interiore allo specchio.

In breve: un alpinista sulle orme del padre, morto quando lui aveva solo tre anni, in occasione di un film sulla storia del genitore sonda i confini fra realtà, finzione, memoria e percorso spirituale, trovando nel padre, nell’attore che lo deve impersonare, nella solitudine dell’ascensione in solitaria parti congelate di sè e un possibile incontro con l’altro.

Che cosa rimane: una riflessione scritta e recitata molto bene da soli due attori in scena sull’abisso di finzione, autobiografia e ascensione interiore, incastonata in una scenografia essenziale, che rende efficacemente il gioco di specchi e la sua profondità.

Qui som? di Baro d’evel

Voto 8 e 1/2 – *****

Genere: circo alieno in casa Bausch.

In breve: l’immaginario slapstick e visionario della compagnia franco-catalana conquista la scena con cadute, danze, canzoni, acrobazie, straripanti marchingeni scenografici stupefacenti, una potenza immaginifica che lascia senza fiato. Una folle banda, vitalissima, ironica e geniale, ci trascina in una festa dopo spettacolo nel suo immaginario dionisiaco, apocalittico e poetico. Senza soluzione di continuità.

Che cosa rimane: la serata del diluvio – spettacolo cancellato – in cui la compagnia decide di scendere per la strada e improvvisa una parata di ottoni e grancasse sotto la pioggia battente.

Lieux Communs di Baptiste Amman

Voto 7+ – ***

Genere: anatomia di un delitto senza soluzione.

In breve: una stazione di polizia con il sospettato messo sotto torchio, il backstage grottesco di un set televisivo, un teatro che mette in scena fra le proteste le poesie di un accusato di aver ucciso una donna, un laboratorio di restauro e lo strano rapporto fra il padrone e la stagista intorno a un quadro controverso. Amman costruisce un thriller senza vera rivoluzione che mette in scena questioni etiche ed estetiche, intrecciando gradualmente i piani e, in ultima istanza, consegnando allo spettatore la responsabilità di interrogarsi.

Che cosa rimane: un quadro politicamente incandescente e moralmente complesso, quello pittore russo Ilia Répine in cui Ivan il Terribile uccide il figlio, che non viene mai mostrato ma che contribuosce, in controluce, a raccontare conflitti, contraddizioni, ambiguità e dilemmi della vicenda narrata sulla scena.

La vie secrète des vieux di Mohamed El Khatib

La vie secrète des vieux

La vie secrète des vieux, Mohamed El Khatib, 2024 © Christophe Raynaud de Lage / Festival d’Avignon

Voto 7 – ***

Genere: indagine/testimonianza provocatoria sulla sessualità degli anziani.

In breve: in scena diversi anziani rivelano che anche la terza età ha una vita desiderante attiva e addirittura trasgressiva, felice e perfino esplosiva, così che – per successive confessioni e testimonianze, con un voyerismo tenero, misurato,  un po’ furbetto, e  – forse eludendo in grottesca freddura gli spettri del decadimento, della malattia e della morte – arriva prevalentemente un messaggio di speranza e liberazione.

Che cosa rimane: la simpatia contagiosa e complice di alcuni di questi aneddoti di juissance tardiva.

Los dias afuera di Lola Arias

Voto 6/7 – ***

Genere: musical carcerario libero.

In breve: seguto di un film testimonianza, l’autrice dà parola e canto a un gruppo di detenute cis- e trans-gender, che raccontano la loro storia e costruiscono percorsi di liberazione attraverso la musica e l’espressione artistica.

Che cosa rimane: la forza emancipatrice della musica, il teatro come risorsa di vita.

Soliloquio (me desperté y golpeé mi cabeza contra la pared) di Tiziano Cruz

Voto 5 – **

Genere: denuncia/confessione poetico-politica.

In breve: una banda di indigeni del nord dell’Argentina attraversa le strade di Avignone, fermandosi per un discorso un po’ comizio sul potere bianco, pressioni e contraddizioni del colonialismo, ricerca di una voce propria; seconda parte in teatro con l’artista che racconta la sua visione, un po’cristologico/vittimista a un pubblico in bilico fra colpa, compiacimento, commozione un po’ cercata.

Che cosa rimane: il sorriso dell’autore che si mette a nudo, con un surplus ideologico, ma anche esponendo le sue contraddizioni.

Liberté Cathédrale di Boris Charmatz

Liberté Cathédrale, Boris Charmatz, 2024 © Christophe Raynaud de Lage / Festival d'Avignon

Liberté Cathédrale, Boris Charmatz, 2024 © Christophe Raynaud de Lage / Festival d’Avignon

Voto 9 1/2 – *****

Genere: eredità di Bausch, con voce personale.

In breve: in un campo da calcio, sotto il cielo stellato, un corpo di ballo organico e fatto di magnifiche singolarità fisiche ed espressive canta, cade, risponde per echi, risuona con le campane e con gli organi, contempla l’assoluto, predica, si concentra e si disperde, e così la danza usa tutte le gamme dell’espressione, dal grido al sussulto, dal campo lunghissimo al primissimo piano, come un tessuto organico o un universo, fatto di cellule e corpi celesti, di forze gravitazionali e moti centripeti, magnetismo e repulsioni, tensioni all’altissimo e richiami alla terra.

Che cosa rimane: come la danza contemporanea, in mano a un coreografo di grande livello, possa essere uno strumento espressivo assoluto e memorabile.

Mothers. A Song for Wartime di Marta Górnika

Voto 5/6 – **

Genere: coro femminile di dolore e di denuncia.

In breve: 20 donne e una bambina ucraine, polacche e bielorusse cantano l’atrocità della guerra e l’anestesia dell’Europa, chiamando le coscienze a guardare l’orrore e impegnarsi per la pace.

Che cosa rimane: la potenza vocale di queste donne, che echeggia come una sveglia nella corte d’onore del Palazzo dei Papi

Wayqeycina di Tiziano Cruz

Voto 6 – **

Genere: ritorno alle origini con banchetto.

In breve: Cruz racconta delle sue origini povere tornando, da artista consacrato, nelle sue terre natali, fra i monti delle popolazioni autoctone del nord dell’Argentina, denunciando il pensiero e l’immaginario dominanti ma esponendo anche le sue contraddizioni sospese fra mondo dell’arte e origini popolari.

Che cosa rimane: le forme di pane che regala al pubblico l’artista nel finale.

Avignon, une école di Fanny de Chaillé

 

Voto 7 1/2 – ***

Genere: ritratto rievocazione viva della storia del festival.

In breve: momenti chiave, passaggi salienti, personaggi indelebili della storia del Festival sono rievocati e interpretati da una schiera coraggiosa e energetica di giovani attori, in un racconto corale ironico, emozionante, orgoglioso di un passato/presente glorioso.

Che cosa rimane: l’affiatamento di questo cast di giovani, la tirata di orgoglio svizzero, trionfo di autoironia e gioco.

Historia d’un senglar (o alguna cosa de Ricard) di Gabriel Calderón

Voto: 8 1/2 – ****

Genere: dialogo con morte e spettatori, dietro le quinte della tragedia.

In breve: Riccardo III riletto/riscritto/reincarnato dalla penna dell’uruguaiano Gabriel Calderón in una lingua che pare un fiume in piena, e affidano nella confusione fertile fra personaggio, attore e interprete al catalano Joan Carreras, una presenza scenica che si staglia e ti taglia, come un Carmelo Bene redivivo.

Che cosa rimane: la necessità/desiderio di rileggere un testo ribollente, che impone un inseguimento e lascia senza fiato, un trono dietro le quinte dove le corde dell’apparato scenico sono metafora e minaccia, un attore mostruoso.

Forever di Boris Charmaz

Voto 7 1/2 – ****

Genere: Bausch senza fine.

In sintesi: Café Müller ripetuto a ciclo da diversi interpreti, intervallato da testimonianze vive e curiose sulla persona e il lavoro della grande coreografa.

Che cosa rimane: la voglia di vedere e rivedere questa pièce fondamentale che ha influenzato tantissima arte successiva (ne esistono 20 versioni di Pina registrate sul sito della sua Fondazione, per scoprire le differenze e la libertà e la ricerca nella ripetizione).

La gaviota di Chela De Ferrari

Voto 6 1/2 – ***

Genere: Checov per non vedenti.

In breve: il Gabbiano in una versione innestata di metateatro e derive pirandelliane, con troppi momenti di discoteca. Produzione del Centro Dramático Nacional d’Espagne, prima volta ad Avignone, la giovane regista, in scena da principio, utilizza attori non vedenti o ipovedenti, inserendo un ulteriore livello interpretativo alla pièce checoviana.

Che cosa rimane: il salotto borghese che occupava la scena iniziale subito “sgomberato” nel tentativo, teoricamente ambizioso, di mostrare l’invisibile sul palco, ma purtroppo rimane il retrogusto di quello che un personaggio definisce, in modo rivelatore, “un piatto cacofonico”.

Leviathan di Lorrain de Sagazan

Voto 7 –  ***

Genere: allegoria cantata della giustizia.

In breve: lo spazio allegorico della giustizia è un’aula respira, una chiesa la cui messa cantata (a tratti letteralmente) ci interroga su punizione e riparazione, espiazione e redenzione, crudeltà e colpa. Il circo della giustizia offre uno spettacolo.

Che cosa rimane: un cavallo in scena terminale (e volutamente interminabile) che, in un tempo morto di cinque minuti (in cui non ci sono battute e gli attori sono fermi), mangia le pagine del libro della Legge. Contro ogni codice.

Terminal (L’État du Monde) di Inês Barahona & Manuel Fragata

Voto 6 1/2 – **

Genere: storytelling come condizione distopico/utopica.

In breve: un mondo utopico/distopico di guerra e natura in pericolo, un po’ fantasy un po’ proiezione delle nostre apocalittiche paure, pare tenuto vivo dalla potenza stessa, ipnotica e apotropaica, della capacità di farsi racconto, narrazione sherazadiana di (r)esistenza.

Che cosa rimane: il suono dolce e suadente della lingua portoghese, un atto di fiducia nel potere salvifico dello storytelling. Il nome bellissimo della compagnia: Formiga Atomica.

Elisabeth Costello. Sept leçons et cinq contes moraux di Krzysztof Warlikowski

Voto: 7/8 – ****

Genere: teoria della letteratura in autofiction per procura.

In sintesi: Elizabeth Costello, il personaggio dell’anziana scrittrice di successo, ombra e alter ego creata da J.M. Coetzee, già salita sul palco nelle opere del drammaturgo polacco, qui è impegnata (e ci impegna per quattro dense ore) in viaggi, incontri e discorsi. La mondanità e il dietro le quinte, le incombenze pubbliche del personaggio sono occasioni per riflettere sul senso della letteratura e dell’identità finzionale, in un contesto che prende spesso derive surreali e simboliche addentrandosi in dilemmi etici ed estetici abissali.

Che cosa rimane: la complessità del pensiero dello scrittore Nobel nella regia con momenti potenti e buñueliani di Warlikowski, come il Coetzee ringhiante alla scrittrice che passeggia su una nave da crociera, mentre sulla parete di fondo del vasto palco del Palazzo dei Papi i ghiacci dell’Artico si sfaldano e affondano nel mare.

IL VINCITORE

Reminescencia di Malicho Vaca Valenzuela

Voto 10 – *****

Genere: cartografia del ricordo

Visto martedì 17 luglio al Gymnase Du Lycee Mistral, Reminiscencia, del cileno Malicho Vaca Valenzuela, parte sottotono, ed è costruito con quasi niente. Eppure – chi l’avrebbe detto? – in questo spettacolo “minore” sulla carta, proveniente dalla periferia del mondo e dall’estetica minimale, che dura meno di un’ora e racconta una storia piccola piccola, si nascondeva una gemma luminosa, e, forse anche per i modi delicati e una coda emotiva che non vedi arrivare ma tocca corde profonde, avvolge e travolge, e si tratta del vero colpo di fulmine di questo festival.
In un corridoio di luce proiettato sul palco, vestito di chiaro, camicia bianca e scarpe da tennis, entra Malicho, un giovane uomo cileno, orecchini argentati ad anello, aria impacciata mentre maneggia un vecchio computer portatile sulla scrivania, sguardo dolce, sorridente e gentile, saluta il pubblico e, scusandosi per le imperfezioni tecniche, comincia con il chiedersi che cosa ha significato per lui (per noi?) lo strano tempo del confinamento durante la pandemia, e a interrogarsi su quel “chiusi dentro” – ma dentro dove? – che abbiamo abitato, sul posto che occupiamo nell’universo (la sua casa, il suo quartiere natale), laggiù ai confini del mondo, in una stradina anonima di Santiago.

La scenografia è solo questo, quello che contiene un computer (proiettato sullo sfondo ingrandito), una scrivania di file disordinata, sullo sfondo una foto di lui bambino, con nonna e un cuginetto. Una canzone di altri tempi (Sin Ti, Senza di te) viene messa su Spotify e fatta cantare, in forma di tentativo abbozzato di karaoke, a un pubblico un filo in imbarazzo, leggermente divertito, che all’inizio non capisce ancora dove si trova e dove sta andando. Ma poi, pian piano, con sapiente quanto invisibile architettura, attraverso foto e filmati amatoriali, una mappa della propria città (da Google Earth nello spazio fino ai dettagli nascosti nella memoria collettiva rappresentata delle immagini casuali di Street View) sono segnati e ci vengono consegnati alcuni luoghi personali, altri luoghi storici, l’ospedale dove è nato, ora abbattuta, la piazza delle manifestazioni, la strada dove Malicho è cresciuto e tuttora vive, qualche spezzone di TV, qualche immagine d’infanzia, una vecchia cartina del Cile (divisa in tre – il Paese è lungo e stretto), messa come sfondo Zoom. Lo storytelling prende corpo pacatamente, attraverso sguardi mirati e carezze, domande inevase e micro notazioni.

Come detto, quasi niente (ricorda per essenzialità che diventa potenza assoluta il dispositivo scenico minimalista di Reality, di Deflorian/Tagliarini, ma meno intellettuale, e nel fare dell’errore e del caso – in realtà, visto due volte, tutto ha una precisione millimetrica – qualcosa di splendente, che ricorda anche Pina Bausch, grande corrente più o meno sotterranea di questa edizione del festival…). Eppure in questo contesto scarno, quasi una versione imperfetta e archeologia di una presentazione di PowerPoint, detto così la cosa meno teatrale e “calda” che ci si potrebbe immaginare, la voce narrante di Malicho, autentica, antiretorica, giocosa ma non irridente, nostalgica ma non mielosa, affettuosa ma non sentimentale, curiosa e interrogante senza mai diventare filosofica o poeticamente artefatta, racconta lentamente – per aperture inattese, segni, crepe e indizi trovati quasi per caso, piccole storie d’osservazione, ossessione, affezione, ingrandimenti rivelatori, finestre su mondi e memorie, divagazioni, ritorni – i luoghi e momenti della sua provenienza. È possibile una cartografia della memoria? Cosa significa scrivere messaggi (come i graffiti urbani della battaglia politica e delle passioni personali) in luoghi che non sono pensati per i messaggi? Questa narrazione diventa dunque un modo sottile, e solo in superficie svagato, di interrogare il senso del luogo (e di casa?) della Santiago privata e della memoria collettiva. E nel moto di ricerca dell’autore, il suo perlustrare virtuale degli affetti e della città in tempo di lockdown, la memoria personale, quella in via di dissoluzione della nonna (che ama e ricorda, e si accende cantando, le canzoni di gioventù) e del nonno (con le sue cinque radio, il DJ del quartiere), e insieme quella di un Paese, e di una giovinezza, in cerca di rivoluzione, di una storia d’amore (quella dei nonni, ma anche quella dell’anonimo poeta che per trent’anni incide le targhe della città di messaggi e palme romantiche). Eppure spesso i segni della città, i suoi buchi e i suoi graffiti, i suoi confini e i suoi abbattimenti, i suoi monumenti e le sue rovine, le sue vene d’acqua nascoste ed emergenti, i suoi simboli di potere e resistenza, costringono lo sguardo interrogante di Malicho a fare i conti con i morti e con la perdita, con i lati oscuri del Potere e della Storia, con le rivoluzioni sognate e quelle mancate. Con i vuoti parlanti di questo tessuto significante.

Ricorda, in questo blow up quasi candido nella memoria collettiva e personale, lo sguardo che dona questo spettacolo semplice e toccante, la cura del mondo che aveva il tabaccaio di Smoke di Wayne Wang, immaginato da Paul Auster, che faceva la sua fotografia quotidiana al suo circoscritto, minimo angolo di mondo, tutti i giorni, con metodoca dedizione, alla stessa ora (cogliendone, così, il nascosto e l’essenziale, prendendosene ritualmente cura). Questa cura ha un tono intenso (ossessivo?) ma non maniacale, una forma di curiosità dolce, nel suo provare a costruire, con un uso povero e impreciso dei mezzi tecnologici, una cartografia traballante della memoria e degli affetti, con le tracce e le ferite della Storia, i sogni della politica e le sue miserie, l’amore e la poesia racchiusi in uno sguardo, in un segno sulle pareti, nella frequenza disturbata, pervicacemente inseguita e infine acciufata, di una canzone alla radio. Ma nel modo sorridente e sottile di fare questa archeologica dei segni segreti di una città e in questo ritratto in controluce di una origine e degli affetti di famiglia, nel volto vivo di questa nonna che, mentre si perde, lentamente diventa indelebile per noi (e in noi), c’è più teatro, misura conoscitiva ed emotiva, attenzione (nel senso auspicato da Cristina Campo), svelamento autentico, che in chili di elaborate scenografie, in litri d’inchiostro drammaturgico, in infiniti virtuosismi declamatori.

Chi l’avrebbe detto che lo spettacolo più povero e meno ambizioso, in apparenza, del Festival d’Avignon, mi avrebbe toccato così a fondo?

In Nelly e M. Arnaud di Claude Sautet, Michel Serrault dice: “I computer sono terribili: hanno una memoria ma non hanno dei ricordi“. Malicho Vaca Valenzuela, con qualche file su un vecchio computer, attraverso la potenza alchemica della scena, riesce a estrarre da quella memoria i segni indelebili dell’umano.

Un canto funebre definitivo a chatGPT (implicito). Un trionfo analogico e sporco dello sguardo. Una grande dimostrazione che il teatro è un soffio che può vibrare potente nel nostro animo con quasi niente. Alla fine il pubblico canta Sin Ti, e non è più un gioco: assomiglia a tutto quello che ci manca.

 

Fotografia header: Reminiscencia, Malicho Vaca Valenzuela, 2024 © Christophe Raynaud de Lage / Festival d'Avignon

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