Davide Coppo è al debutto narrativo con “La parte sbagliata”, “un romanzo di formazione sbagliata” su un adolescente di buona famiglia, senza particolari traumi alle spalle, che negli anni Duemila entra in un gruppo neofascista – Su ilLibraio.it un estratto

Davide Coppo, classe ’86, dal 2011 lavora nella redazione di Rivista Studio, con vari ruoli. Dopo aver pubblicato un saggio in The Game Unplugged (Einaudi, 2019), ora firma per e/o La parte sbagliata, il suo primo romanzo, che fa tornare in mente un suo articolo del 2021, dal titolo Le cose che conosco sull’estrema destra a Milano.

Parliamo infatti di un romanzo, in parte autobiografico (“Non del tutto vero, nemmeno del tutto inventato“, ha sintetizzato Coppo, che nei ringraziamenti scrive che “questo è un libro di finzione, ma le ombre che proietta si allungano su un passato reale”), che parte da una domanda: che cosa spinge un giovane di buona famiglia, senza particolari traumi alle spalle, a scegliere la via dell’estremismo politico?

Siamo negli anni Duemila, non nei Settanta: Ettore, il protagonista, lasciata la provincia e arrivato in citta per iscriversi in un grande liceo del centro, si ritrova senza punti di riferimento, sperduto, soprattutto umanamente, in un territorio e una comunità in cui non sa ritrovare riferimenti ne amicizie.

Lì troverà presto in un gruppo neofascista, prima per caso, e poi coltivando da se la propria stessa radicalizzazione, il distacco dalla famiglia e dagli amici, fino a un inevitabile e tragico finale.

Il libro viene presentato come “un romanzo di formazione sbagliata, un climax non tanto – o non solo – di violenza, ma anche di legami che si stringono, altri che si sfilacciano, e soprattutto di costruzione di un’identità“.

Allo stesso tempo, più universalmente il libro parla dello spaesamento emotivo con cui ci si trova a fare i conti durante l’adolescenza, e racconta un viaggio nell’attrazione che il male sa sempre esercitare. E un libro di finzione, ma le ombre che proietta si allungano su un passato reale vissuto dall’autore.

la parte sbagliata davide coppo

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

Sul telo c’era scritto “Europa Nazione” con quei caratteri che usano anche certe tifoserie allo stadio. Era uno slogan che mi piaceva, e con i camerati, usando lo scotch per delimitare i confini delle lettere e le bombolette nere per riempirle, avevo aiutato a scriverlo. Mi piaceva, poi, la bandiera blu con le stelle gialle disposte in cerchio, mi ricordava la sigla che da bambino vedevo passare alla televisione prima di certe trasmissioni del programma Eurovisione. Ecco il nostro muro di cinta per proteggerci dalla globalizzazione, mi dicevo con una piccola epifania: una patria grande, e antica, in fondo un’altra cosa che mi faceva sentire in bocca, e dietro agli occhi, il gusto dolce dell’infanzia. Un’altra cosa per cui mi sembrava giusto combattere.

Quel giorno a Milano pioveva e l’umidità addensava l’aria che era già pesante e maleodorante da settimane. Il corteo è passato pacifico per il centro, i fumogeni di quelli nelle prime file avevano un forte odore sulfureo che non avevo mai respirato. Mi facevano tossire, all’inizio, poi ho inspirato a fondo e provato qualcosa di simile a un’ebbrezza. Un’altra cosa che ho conosciuto e che mi confondeva e poi mi piaceva.

Il coro che scandivamo diceva: «Europa-Nazione-Rivoluzione». Tra gli spezzoni del corteo si muoveva Roberto con un megafono in mano per ripetere le parole o lanciare nuovi canti, lo faceva come un allenatore con i suoi giocatori, con una faccia a tratti convinta e severa, a tratti con un’espressione felice nonostante la testa scoperta, bagnata e fredda. Anche Giulio non rimaneva in un posto fisso, ma andava avanti e indietro, controllava gli striscioni, diceva: «Più alto!» oppure parlava con qualcuno, due parole o una battuta appena, pochi secondi per stemperare l’entusiasmo o la tensione prima di staccarsene di nuovo. Quelli grossi, quelli con la faccia cattiva oppure gli occhi da squilibrati, che parlavano poco e sempre mi facevano paura, se ne stavano ai lati, a guardarci dalla distanza come se fossimo noi stessi delle pecore da tenere a bada e loro i cani da pastore: erano il servizio d’ordine, mi avevano detto. I nostri giubbotti nel frattempo si erano inzuppati d’acqua, io mi leccavo le gocce di pioggia dai primi baffi sottili che crescevano sopra le labbra. Mi sembrava che la pioggia rafforzasse il senso di unità. Giulio mi ha offerto una sigaretta, io non riuscivo a liberare le mani dallo striscione, allora me l’ha infilata direttamente in bocca lui e mi ha aiutato ad accenderla facendo scudo dal vento con la mano. Ridevamo.

C’era una canzone in particolare che ho ascoltato molto nei giorni prima di quel corteo e raccontava della Rivoluzione ungherese del 1956, era una marcetta triste e lugubre che mi canticchiavo in testa per tenere il tempo del corteo e non pensare all’umidità che mi gelava la schiena. Si chiamava: Avanti ragazzi di Buda. Nei giorni precedenti l’avevo ascoltata dal lettore CD con le cuffie mentre me ne stavo sdraiato nel letto e alcune di quelle volte mi ero commosso fino a piangere, e siccome ho sempre pianto per un nonnulla, fin da bambino, mi commuoveva ogni volta quella parte in cui uno studente ungherese, uno che partecipava alla rivoluzione di libertà contro i sovietici, diceva a una studentessa del suo stesso partito: «Ragazza non dire a mia madre / che io morirò questa sera/ ma dille che vado in montagna / e che tornerò a primavera».

Mandavo indietro più volte la canzone sempre su quella frase, perché volevo piangere di più, volevo svuotarmi fino alla fine dalle lacrime e dalla tristezza, fino a essere scosso dai singhiozzi. Cercavo una purificazione, una pace, che andava ben al di là di quella canzonetta.

Una volta ascoltata un sufficiente numero di volte, quando le lacrime smettevano di scendere e il respiro si calmava, a volte con un fazzoletto nella mano, mi cullavo nel sonno pensando all’amore, e quindi andando indietro a Olimpia, ai suoi occhi verdi e al suo piccolo seno che non vedevo ormai da mesi.

Le braccia, a reggere il palo dello striscione, si indolenzivano dai gomiti fino al collo nel giro di pochi minuti. Non sapevo chi fosse il ragazzo di fianco a me, quello che sorreggeva il palo centrale, ma ci siamo guardati con espressioni d’intesa per mostrarci solidarietà nella fatica. Ero felice. Ero – non c’è una parola migliore per dirlo – pieno, riempito, come un frutto perfettamente maturo. Ogni tanto cantavamo tutti insieme ancora lo slogan che tornava: Europa-Nazione-Rivoluzione.

Mi sono voltato verso la coda del corteo per ammirarlo ma ho rischiato di compromettere l’equilibrio e afflosciare tutto lo striscione. Un tizio che risaliva il corteo a passo veloce, uno più grande, mi ha dato un colpo secco sulla schiena con la mano aperta, ha detto: «Bene in alto questo striscione, dài!». Era del gruppo universitario, l’avevo visto certe volte alla Federazione anche se non conoscevo il suo nome.

Pensavo: è la prima volta che mi sento così. Pensavo alle braccia degli altri, di quelli che camminavano liberi davanti e intorno a me, che a volte si alzavano per accompagnare i cori, si tendevano a fare il saluto romano, un gesto che ancora mi imbarazzava. Mi spaventava, mi pareva violento, quasi volgare. Anche Giulio se ne lamentava, passava e parlava da solo oppure con Roberto e diceva: «Ma dài» e poi diceva che non si poteva fare continuamente, che i giornali ci avrebbero ricamato sopra le solite polemiche, che non dovevamo dargli queste opportunità così facili. Dovevamo essere più furbi.

A un certo punto ho però modificato l’impugnatura del palo: portando la mano sinistra più in alto, e facendo un passo in avanti rispetto alla linea degli altri. In questo modo avevo appoggiato, appena in diagonale, l’asta alla spalla, e potevo sgranchirmi il braccio destro. È stato un istinto improvviso, l’ho sollevato per un istante, la mano piatta verso l’alto. Rapido, su! Come un ombrello che si apre, che rimane soltanto due secondi sospeso per aria. Teso. Ho contratto tutti i muscoli perché ne risultasse un braccio diritto, perfetto, senza indugi e senza mollezze, senza errori. Sono stato illuminato dalla potenza del proibito. In un attimo ho provato la bellezza di quello che tutti consideravano sbagliato, ho capito che avrei dovuto abbandonare ogni ritrosia. Mi sono rimesso in ordine, al mio posto. Un brivido mi ha scosso.

Ho guardato ancora il ragazzo a fianco a me, di nuovo ci è uscita quell’espressione di complicità. Abbiamo riso allora.

(continua in libreria…)

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Fotografia header: Davide Coppo, foto di Fabrizio Vatieri

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