Franco Di Mare se n’è andato, stroncato da un tumore. Ha fatto il suo lavoro di inviato di guerra con leggerezza, che non è superficialità ma la virtù suprema dei responsabili e degli scrupolosi. Degli appassionati e dei folli. Degli innamorati e degli impavidi…

Ora che Franco Di Mare se n’è andato non facciamone un santino, un martire del giornalismo, una vittima della burocrazia occhiuta e cocciuta (questa sì, pervicace e immortale). Lui per primo, forse, non lo avrebbe voluto, e neppure tollerato. Perché il mestiere di inviato di guerra, che lui aveva scelto e svolto con grande professionalità, ha una dose importante, se non decisiva, di follia, non appartiene alla routine da scrivania.

E menomale che è così. È mestiere per spiriti liberi, per chi è dotato di un coraggio quasi picaresco, per chi è pervaso dalla curiosità di andare sui posti, scoprire, indagare oltre le verità ufficiali e le veline dei governi e dei regimi, scovare storie e personaggi, mettere insieme tessere del puzzle apparentemente distanti e poi raccontare tutto, con parzialità (l’oggettività non esiste, se non in qualche corso teorico di giornalismo) e passione, abnegazione e, soprattutto, senso di responsabilità.

Si corrono dei rischi, certo, a volte pure la vita, ma Franco Di Mare non ci aveva mai pensato. Nessuno ci pensa in quel mondo eccentrico e delizioso dei cronistacci che vanno sui campi di battaglia, raccontano di narcos e lotte oscure per il potere, trame di terroristi macellai e culture ancestrali, soldati e mercenari, santi e diavoli. Si rischia di finire sotto le bombe sì, può capitare. Senza, però, eroismi posticci, o cercando un’aura da martire a scoppio ritardato.

Franco Di Mare ha fatto il suo lavoro di inviato con leggerezza, che non è superficialità, ma la virtù suprema dei responsabili e degli scrupolosi. Degli appassionati e dei folli. Degli innamorati e degli impavidi. Senza leggerezza e ironia non si va nei posti dove Franco Di Mare, e tanti prima di lui, è andato: “Ho rischiato la pelle troppe volte e mi è andata bene“, diceva prima che il mesotelioma, contratto forse respirando l’amianto nei Balcani, s’insediasse nei suoi polmoni impedendogli di respirare fino a ucciderlo.

Le parole per dirlo (SEM), il suo ultimo libro uscito a fine aprile, Di Mare lo aveva scritto “per raccontare le guerre fuori da me e quella dentro di me. Un piccolo dizionario esistenziale. Senza pietismo. È il mio testamento“, come aveva detto nell’intervista del 29 aprile al Corriere della Sera.

Le parole per dirlo. La guerra fuori e dentro di noi franco di mare

Non ingannino i titoli dei giornali, i pettegolezzi allusivi e pruriginosi, le querelle sulla Rai, le e-mail inviate e mai riscontrate, o riscontrate solo tardi. Sì, Franco Di Mare ne aveva parlato, certo, ma come piccole disavventure e non come questione essenziale. Probabilmente, in uno dei suoi reportage avrebbero meritato due righe, e non di più.

Dopo essere stato redattore e inviato de L’Unità, era entrato in Rai nel 1991 nella redazione esteri del Tg2, divenne nel 1995 inviato speciale; passò nel 2002 al Tg1, dove seguì buona parte dei conflitti degli ultimi venti anni: Bosnia, Kosovo, Somalia, Mozambico, Algeria, Albania, Etiopia, Eritrea, Ruanda, prima e seconda guerra del Golfo, Afghanistan, Timor Est, Medio Oriente e America Latina.

Una mappa degli orrori dell’ultimo scorcio del Novecento. Orrori le cui vittime hanno un nome e un volto.

Per questo nel 2007 aveva intitolato Amira uno spettacolo teatrale in cui raccontava l’orrore della guerra, di ogni guerra. Amira era il nome di una bambina bosniaca che un giorno, mentre gioca per strada, viene inquadrata dal mirino di un cecchino: verrà uccisa o risparmiata?

La sua storia vera era il fil rouge della narrazione dello spettacolo: “Tra il 1992 e il ’95”, aveva raccontato Di Mare, “a Sarajevo sono stati tremila i bambini massacrati in questo modo. Quando cade una bomba che colpisce a caso è un conto, ma quando vedi i cecchini che prendono deliberatamente di mira i bambini, sparandogli alla schiena o in fronte, solo per il gusto di farlo, ti chiedi perché, qual è la logica?”.

Ne aveva viste e documentate tante di atrocità, Franco Di Mare, da non averne paura. Non per cinismo, ma per quella pietas, sorniona e mai appariscente, che infine avvince anche gli inviati di guerra: “In Ruanda”, aveva raccontato, “gli Hutu lanciavano in aria i neonati e facevano a gara per vedere chi riusciva a colpirli col machete più volte, prima che cadessero a terra“.

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Vent’anni di guerre, vent’anni sul fronte, vent’anni faccia a faccia – senza rispettabili garanzie – con l’abisso di assurdità, dolore, ingiustizia e tenerezza del mondo.

Senza i cronisti come Franco Di Mare ogni conflitto si trasformerebbe in guerriglia di propaganda, in conta di morti e feriti, in report asettici sul numero di obiettivi colpiti, in elenco di dichiarazioni sterili di attacco o commiserazione, in retorica stucchevole.

Franco Di Mare ha mescolato il lavoro e la vita, i reportage e gli affetti, le Storia e la sua storia personale. Sotto le bombe di Sarajevo, la città martire dell’ex Jugoslavia, nel 1992 incrociò gli occhi della piccola Stella, ancora neonata, dopo un bombardamento che distrusse l’orfanotrofio dove si trovava. Di Mare era lì per raccontare la guerra come corrispondente e non rimase indifferente: “Quando vidi gli occhi di quella bambina ci capimmo subito”, aveva raccontato a Famiglia Cristiana, “avevo trentacinque anni in un momento particolare della mia vita e Stella mi ha salvato. Mi ha salvato il nostro amore che è riuscito, incredibilmente, ad aprire ogni porta e superare ogni difficoltà. Stella mi ha fatto incontrare la fede. Mi ha fatto dire Dio c’è”. Oggi Stella ha trent’anni. Di lei, poco o nulla si sa, se non l’essenziale: se è viva lo si deve a un inviato di guerra che si è trovato al posto giusto nel momento giusto. E ha avuto il cuore e il coraggio di strapparla all’inferno.

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Una storia che Di Mare aveva raccontato nel 2011 nel libro Non chiedere perché (Rizzoli) dal quale nel 2015 era stata tratta la fiction Rai L’angelo di Sarajevo con Beppe Fiorello.

Alla guerra dei Balcani aveva dedicato anche un altro libro, Il cecchino e la bambina – Emozioni e ricordi di un inviato di guerra (Rizzoli), dove raccontava gli orrori di quel conflitto in una sorta di diario di emozioni, quotidianità, paure e miserie.

La morte a dadi. La morte come un duello tra gatto e topo. Per non lasciarsi travolgere dall’orrore. Per resistere sotto le bombe, come raccontò una volta: “Ero a Sarajevo con l’operatore Luciano Masi. Dovevo portare un video alla tv locale per trasmettere il servizio. Ma la strada da attraversare era sotto la mira di un cecchino. Facemmo la conta: testa o croce, chi passa per primo. Toccò a me: tre salti ed ero miracolosamente illeso dall’altra parte. Toccò a Luciano e, anche lui, riuscì a passare. Una roulette russa, ma ce l’avevamo fatta: cominciammo a ridere e a ballare. Una maniera per fottere la morte”. Con i suoi reportage, e la passione che ci metteva, Franco Di Mare, alla fine, ci è riuscito.

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