Il tema è noto e dibattuto: perché in Italia non siamo in grado di fare serie tv belle come quelle americane? Su ilLibraio.it la risposta, approfondita, dello sceneggiatore (di successo) Salvatore Basile, che a maggio sarà in libreria con il suo primo romanzo, e che replica: “Siamo in grado, eccome. E stiamo anche arrivando a produrre serie di alto livello. Ma per capire a fondo il motivo del nostro ‘ritardo’, dobbiamo fare un piccolo viaggio a ritroso…” – L’approfondimento

Immaginate una stanza con al centro almeno due scrivanie. Alle pareti, quattro lavagne magnetiche piene di appunti e di schemi. La finestra è aperta, perché si fuma. Una delle “malattie” congenite dello sceneggiatore è il fumo. La sigaretta è un rifugio, un appiglio facile a cui aggrapparsi per sostenere la concentrazione e, a volte, anche la tensione. Nella stanza ci sono quattro persone. Una di queste persone, sono io. Mi trovo in piedi, accanto alla finestra, ho appena acceso l’ennesima sigaretta e ora comincio a passeggiare in lungo e in largo, girando intorno alla scrivania. Il mio collega, Angelo, è seduto, la testa tra le mani. Mentre Cinzia è accanto a una delle lavagne, col pennarello in mano, in attesa di scrivere cosa accadrà alla fine dell’ottavo episodio della serie televisiva che stiamo scrivendo. Mauro, la quarta persona presente nella stanza, è seduto davanti a un computer. È il più giovane di tutti, il più inesperto, e ha l’ingrato compito di annotare qualunque cosa venga detta e immaginata nel corso della riunione. Anche quelle più assurde, perché a volte da un’assurdità può scaturire lo spunto per un’idea risolutiva.

Quella che vi ho appena descritto è una writers’ room, il luogo dove si costruiscono, passo dopo passo, le serie televisive. Ciascuno dei quattro che compongono il team di sceneggiatori ha un compito preciso. Di Mauro, abbiamo già detto: è lo “scrivano”, colui che tiene il rapporto aggiornato di ogni riunione.

Cinzia è la “sfacciata”: quella che ha il coraggio di avvicinarsi alla lavagna bianca e “attaccarla” scrivendo le prime righe, i concetti essenziali della storia che dovremo ideare: il tema del racconto, i personaggi principali, il contesto e, soprattutto, la “prima, maledetta scena”.

Angelo, quello con la testa tra le mani, è lo strutturalista: colui che tiene le fila del racconto, che colloca un’idea nell’episodio giusto, che controlla l’arco narrativo dei personaggi, che capisce al volo dove può portare una nuova idea e se quella è coerente con la storia. Oltre a ciò, è colui che evita di far riapparire nel settimo episodio un personaggio che abbiamo “ammazzato” nel quarto.

Poi, ci sono io: il “viscerale”, quello che sforna idee lungo il percorso, anche le più strampalate, e che spesso viene richiamato all’ordine dallo “strutturalista”.

In realtà, i ruoli non sono così rigidi. Ognuno di noi può fare le veci dell’altro e assumerne i compiti. Ma è bene che ciascuno segua la mansione per la quale è più portato.

La writers’ room è l’immagine di come il lavoro di sceneggiatore stia cambiando negli ultimi tempi. Quando ho iniziato questo lavoro, nel 1992, le lunghe serialità erano viste come un prodotto laterale: la maggior parte delle produzioni, infatti, era rivolta alle fiction in due puntate (dette anche miniserie) e ai tvmovie di 100 minuti. Era il cinema che si trasferiva nel piccolo schermo, con i suoi contenuti: la commedia all’italiana, il film storico, le grandi epopee e i classici.

Oggi le cose sono cambiate. Ormai le lunghe serialità sono il prodotto imperante sul piccolo schermo: permettono di ammortizzare i costi e di creare affezione da parte del pubblico, garantendo in questo modo un alto indice di ascolti. La tv italiana è stata l’artefice di molte lunghe serialità di successo. Chi non ricorda Il commissario Maigret interpretato da Gino Cervi? E Il Tenente Sheridan con l’indimenticabile Ubaldo Lay? La Piovra, poi, è stata una serie a suo modo rivoluzionaria: ha introdotto la tv a nuovo stile di linguaggio prettamente cinematografico.

Così come, in seguito, Il maresciallo Rocca, l’ancora attualissimo Don Matteo, per non parlare del Commissario Montalbano.

Nonostante ciò, la fiction italiana è, oggi più che mai, sotto esame.  Il motivo è il paragone costante con le serie americane: Mad Men, Trono di spade, Walking dead, Breaking bad, House of cards, per citarne alcune tra le più note.

La domanda che ricorre tra gli appassionati è: per quale motivo non siamo in grado di fare serie così belle?

Rispondo subito: non è vero: in Italia siamo in grado, eccome. E stiamo anche arrivando a produrre serie di alto livello. Ma per capire a fondo il motivo del nostro “ritardo”, dobbiamo fare un piccolo viaggio a ritroso…

Immaginiamo di tornare indietro nel tempo: siamo nel 1954, in una qualunque città d’Italia. Nell’abitazione di una famiglia si apre la porta d’ingresso e due fattorini entrano trasportando uno scatolone imballato che contiene uno dei primi televisori. I bambini sono emozionati, euforici. Il papà e la mamma devono decidere in fretta dove collocare il nuovo,  “apparecchio magico”. Non sarà una scelta facile: il televisore non è come il frigorifero, che è stato “piazzato” in cucina, dove c’era posto, tra il fornello e la credenza. Non è neanche la lavatrice, relegata nel bagno, lontana dagli sguardi degli ospiti.

Il televisore è qualcosa di diverso: poco dopo, infatti, lo vediamo troneggiare sulla parete del soggiorno, visibile a tutti, da qualunque angolazione, come un ospite d’onore. Ma sarà un ospite particolare, destinato a non andare via dopo qualche giorno.

È proprio nel 1954 che la RAI inizia a trasmettere le prime programmazioni. All’inizio dell’anno, i possessori di un televisore, in Italia, sono 24.000. Alla fine del 1954 saranno già 90.000.  E intorno a quei 90.000 apparecchi elettronici, ogni sera, si radunano tutte (o quasi) le famiglie del condominio. Portano le sedie dalle loro case, qualcuno porta con sé anche dolci o vino da offrire alla famiglia ospitante.  Nel giro di pochi mesi, il televisore è diventato un componente della famiglia. Unisce, informa, racconta, comincia a unificare il linguaggio degli italiani, istruisce. I primi sceneggiati sono tratti dalla letteratura mondiale e la divulgano, incentivando alla lettura e alla scoperta dei classici: Il mulino del Po, Cime Tempestose, I Miserabili, Piccolo mondo antico, La cittadella, Orgoglio e pregiudizio, sono solo alcuni dei titoli portati sullo schermo.

Oggi, molte cose sono cambiate.  C’è almeno un televisore in ogni casa, le emittenti si sono moltiplicate, l’offerta è variegata, quasi personalizzata. Negli anni, le tv satellitari hanno introdotto nuovi linguaggi narrativi, il WEB ha dato il via a sperimentazioni di ogni genere, permettendo a chiunque di affacciarsi sul panorama dell’intrattenimento.

Ma in Italia, ancora oggi, quando un televisore entra in casa è ancora e sempre quel televisore del 1954. Si accende e automaticamente si sintonizza sui canali delle tv generaliste. Che sono solo due: Rai e Mediaset. Alle quali va aggiunta La 7.

Cosa significa questo? Significa che, mentre all’estero il numero delle emittenti si moltiplicava, da noi restava fermo a un semplice duopolio, per giunta “generalista”. Il che vuol dire, proprio come nel 1954, rivolgersi all’intero nucleo famigliare, dai figli ai nonni, con l’obbligo, ma anche il dovere, di scrivere e realizzare prodotti “rassicuranti”, rivolti alla famiglia. All’interno di questo ring circoscritto, si sono realizzate fiction spesso brillanti e ben fatte, altre volte prodotti di minor spessore e successo, ma sempre e comunque legate a un linguaggio popolare, spesso perbenista.

Nel frattempo, all’estero (e negli Stati Uniti in particolare), il numero delle emittenti a disposizione degli autori si allargava a macchia d’olio, permettendo la realizzazione di prodotti di nicchia, rivolti a un pubblico sempre più frazionato. Tutto questo perché le emittenti potevano permettersi di produrre film e serie che avrebbero avuto un bassissimo numero di ascoltatori, ma che, grazie alle vendite all’estero, avrebbero compensato i guadagni e premiato gli investimenti.

I successi mondiali delle serie come Mad Men, Trono di spade, Walking dead, Breaking bad, House of cards, sono dovuti alla somma di tante piccole nicchie di ascolto sparse per il mondo: gli spettatori delle tv via cavo, del web, dei tanti circuiti alternativi alle reti generaliste.

Gli spettatori di Walking dead, ad esempio, in Italia ammontano a poche centinaia di migliaia, a fronte dei 5 – 6 milioni di una serie italiana trasmessa sulle reti generaliste: un abisso.

A lungo, ciò ha penalizzato l’intero comparto, dalle emittenti stesse agli sceneggiatori, ai registi, agli attori. Tutti impossibilitati a sperimentare, provare nuove strade narrative, perché non esistevano “nicchie” di mercato in cui poter riversare nuovi tipi di linguaggio come, invece, era possibile all’estero.

L’avvento di Sky ha in parte modificato la situazione: l’emittente via cavo ha iniziato a produrre anche in Italia e i primi risultati non si sono fatti attendere. Serie come Gomorra, 1992, Romanzo criminale, hanno dimostrato che in Italia siamo capaci di realizzare serie in grado di competere sul mercato internazionale.  Negli ultimi tempi la stessa Rai, con grande coraggio e lungimiranza, ha iniziato a produrre webserie e ad aprire il mercato grazie a coproduzioni con l’estero, e ad accordi produttivi con Netflix.

Così probabilmente si apriranno nuove prospettive di linguaggio e di realizzazione e credo che il nostro paese saprà dimostrare di essere all’altezza delle nuove sfide.

Le altre, bisogna dirlo, sono già vinte: la fiction italiana vanta lo share più alto in assoluto nel mondo, in nessun’altra nazione la fiction raggiunge il 30% di ascolto, come invece accade spesso da noi, con punte che superano perfino il 40% com’è accaduto recentemente al Commissario Montalbano. Inoltre, la vocazione a raccontare storie di stampo sociale e di cronaca recente sta prendendo sempre più piede. Insomma, i risultati ci sono: si tratta solo di migliorare ancora e sempre di più. Ulteriore segnale in questo senso sono le serie in preparazione, tratte da  romanzi di autori del calibro di Maurizio de Giovanni, Antonio Manzini, Chiara Gamberale, Elena Ferrante. Se anche la buona letteratura torna a irrompere nella fiction, c’è da ben sperare.

Ora, scusatemi, ma devo tornare nella writers’ room. Propongo ai miei colleghi di trasformare un personaggio, un geometra appena divorziato, in zombie all’inizio dell’ottavo episodio, ambientato a Riccione durante l’estate. Non capisco perché Angelo mi stia guardando con un’espressione così contrariata…

L’INIZIATIVA PER I LETTORI – In occasione dell’uscita, il 5 maggio, del romanzo d’esordio dello sceneggiatore Salvatore Basile, Lo strano viaggio di un oggetto smarrito, la casa editrice Garzanti e Vanityfair.it stanno cercando te: se hai tra i 25 e i 35 anni e sei residente in Italia, potresti diventare la protagonista femminile o quello maschile del booktrailer sceneggiato da Basile. L’iniziativa è volta a scovare sui social il ragazzo e la ragazza che daranno il volto a Michele eElena nel trailer italiano del libro.

Come fare a diventare protagonista?
1 Invia la liberatoria che trovi qui compilata in ogni sua parte e firmata, all’indirizzo mail stranoviaggiocasting@garzantilibri.it, insieme ad una tua fotografia.
2 Gira un video di presentazione, che non dovrà durare più di 20 secondi, e raccontaci qualcosa di te o spiega perché vorresti partecipare.
3 Hai 4 modi per mandarci il video, scegli quello che preferisci:
Puoi caricare il video su YouTube e inviare il link insieme alla liberatoria.
Se hai un account Instagram puoi caricare il video direttamente utilizzando l’hashtag#stranoviaggiocasting.
Se il video pesa meno di 10 MB puoi inviarlo per email, oppure manda il video tramite WeTransfer.
Hai tempo fino alla mezzanotte del 4 aprile. Passeremo insieme una giornata speciale e il trailer verrà diffuso anche su Vanityfair.it
Per saperne di più segui Lo strano viaggio di un oggetto smarrito sulla pagina Facebook ufficiale.

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