“Leggendo i vangeli non stupisce che Gesù sia stato ammazzato, sorprende piuttosto che sia riuscito a campare così tanto… Era un pericolo pubblico e doveva immediatamente essere eliminato… ogni volta che apriva bocca distruggeva tutto quel che di santo, di giusto, di onorato l’istituzione religiosa era riuscita a creare per il suo interesse e per l’onore di Dio…”. La riflessione del biblista Alberto Maggi

SANTANARCHIA

Leggendo i vangeli non stupisce che Gesù sia stato ammazzato, sorprende piuttosto che sia riuscito a campare così tanto.

Uno così era un pericolo pubblico e doveva immediatamente essere eliminato, era una mina vagante che ogni volta che apriva bocca distruggeva tutto quel che di santo, di giusto, di onorato l’istituzione religiosa era riuscita a creare per il suo interesse e per l’onore di Dio. La casta sacerdotale al potere aveva infatti creato un’architettura perfetta destinata a durare per sempre. Ma come per l’enorme statua dai piedi d’argilla, Gesù si rivelò essere per essa come la pietra che, staccata dal monte, la fece crollare distruggendola completamente (Dn 2,31-35).

Terrorismo religioso

L’istituzione religiosa, per ottenere l’ubbidienza del popolo e imporre leggi da essa emanate ma contrabbandate come divine, non potendo ricorrere all’arma della persuasione era ricorsa a quella ancor più efficace del terrore, inculcando la paura del castigo divino, come si legge in uno degli episodi più sconcertanti della Bibbia.

Nel Libro dei Numeri si narra infatti che “mentre gli Israeliti erano nel deserto, trovarono un uomo che raccoglieva legna in giorno di sabato”. Quel che è naturale per i più, non lo è per l’istituzione religiosa. Perché si raccoglie legna? Per fare il fuoco, per cucinare, per riscaldarsi, tutte attività lecite, ma “quelli che l’avevano trovato a raccogliere legna, lo condussero a Mosè, ad Aronne e a tutta la comunità. Lo misero sotto sorveglianza, perché non era stato ancora stabilito che cosa gli si dovesse fare”. Quale delitto ha compiuto? Non si dice che abbia rubato o che abbia esercitato alcuna violenza, ma che ha semplicemente raccolto legna, avendolo però fatto in un giorno in cui ciò è severamente proibito, cioè il sabato. In tutti i giorni della settimana si può raccogliere legna, e quanta se ne vuole, ma il sabato no, neanche un rametto. Mosè e suo fratello, indecisi su che fare di questo trasgressore, consultano direttamente il Signore stesso, che sentenziò: “Quell’uomo deve essere messo a morte; tutta la comunità lo lapiderà fuori dell’accampamento”. Ma si può condannare a morte un uomo per aver raccolto della legna? Nessuno obiettò che la pena era sproporzionata e disumana, anzi tutta la comunità, ubbidiente, “lo condusse fuori dell’accampamento e lo lapidò; quegli morì secondo il comando che il Signore aveva dato a Mosè”  (Nm 15,32-36).

1521 lavori proibiti

Per evitare in futuro incertezze sull’esatto rispetto del comandamento, Mosè stabilì nel decalogo regole ben precise sul sabato. La Bibbia ne riporta due differenti formulazioni, contenute nel Libro dell’Esodo (Es 20,8-11) e nel Deuteronomio (Dt 5,12-15), dove viene elencato dettagliatamente chi non dovrà fare alcun lavoro (“né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né alcuna delle tue bestie, né il forestiero, che sta entro le tue porte”). Risalta l’assenza della moglie… qualcuno doveva pur lavorare.

L’adempimento di questo unico comandamento, che anche il Signore con tutta la corte celeste osservava nei cieli, equivaleva all’ubbidienza di tutta la Legge, per questo la sua trasgressione era punita con la morte per lapidazione. Ciò era talmente indiscutibile che anche un profeta del calibro di Geremia ammoniva: “Per amore della vostra stessa vita, guardatevi dal trasportare un peso in giorno di sabato e dall’introdurlo per le porte di Gerusalemme. Non portate alcun peso fuori dalle vostre case in giorno di sabato…” (Ger 17,21-22). Per essere sicuri, nel Talmud si chiarisce che cosa s’intende per “peso”: “Alla sera del venerdì il sarto non deve uscire con il suo ago in modo che non lo dimentichi il giorno di sabato, ugualmente lo scrivano con il suo calamaio”( Shab. M. 13).

Al tempo di Gesù scribi e farisei, per essere certi di osservare scrupolosamente il comandamento divino, avevano stilato l’elenco delle attività proibite, che vennero calcolate per un totale di ben millecinquecentoventuno azioni vietate in giorno di sabato, cifra tratta dai trentanove lavori che erano stati necessari per la costruzione del tempio di Gerusalemme, ognuno dei quali era a sua volta suddiviso in trentanove lavori secondari.

E Gesù?

Lui ha proclamato che “Il vino nuovo bisogna metterlo in otri nuovi” (Lc 5,39). La nuova relazione che Gesù propone con il Padre non può avvalersi delle vecchie pratiche della religione, che non solo risultano inefficaci e incapaci di contenere questa novità, ma le sono anche di ostacolo: “Nessuno mette vino nuovo in otri vecchi: altrimenti il vino nuovo spacca gli otri, si versa fuori e gli otri vanno perduti” (Lc 5,37).

Lo scontro con la Legge era inevitabile: nel vangelo di Luca Gesù trasgredisce volontariamente e pubblicamente questo comandamento ben quattro volte.

Tre di esse sono trasgressioni a favore del bene delle persone: l’uomo dalla mano inaridita (Lc 6,6-11), la donna curva (Lc 13,10-17) e l’idropico (Lc 14,1-5). Quando, in situazioni come queste, Gesù si è trovato di fronte alla scelta tra l’osservanza della Legge divina e il bene dell’uomo, non ha mai esitato, perché scegliendo il bene dell’uomo era certo fare il bene di Dio. Troppo spesso, invece, per il rispetto della Legge divina si sono fatte e si fanno soffrire le persone. Ma nella prima trasgressione, la più grave, non è in gioco né la vita né la salute degli uomini. Che cosa può spingere allora Gesù a violare pubblicamente il comandamento?

In un giorno in cui non era consentito percorrere la strada se non per “il cammino permesso in un sabato” (At 1,12), cioè un chilometro scarso, e si poteva uscire di casa solo per andare in sinagoga, Gesù se ne va in campagna con i suoi discepoli. Nessun motivo urgente, nessun ammalato da curare. A questa prima trasgressione i discepoli ne aggiungono altre, infatti “strappavano e mangiavano le spighe sfregandole con le mani”. Non viene spiegato perché i discepoli colgano le spighe, non si afferma che le mangino perché hanno fame, ma semplicemente perché così va a loro di fare, per piacere, perché sono liberi. Ed ecco spuntare dal nulla i farisei, gli zelanti guardiani della Legge, che accusano i discepoli di fare quel che non è permesso in giorno di sabato. Nell’atteggiamento di Gesù e dei suoi discepoli, infatti, i farisei individuano almeno tre infrazioni al comandamento: oltre a quella del camminare, anche cogliere le spighe e sfregarle, gesti che equivalgono alla mietitura e alla trebbiatura, lavori esplicitamente vietati nell’elenco delle trentanove proibizioni. Non solo: a queste si aggiunge la trasgressione al comando del Libro del Levitico, che proibisce di mangiare il grano prima della mietitura: “Non mangerete pane né grano abbrustolito né grano novello, prima di quel giorno, prima di aver portato l’offerta del vostro Dio!” (Lv 23,14).

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Gesù, anziché sgridare i discepoli per le trasgressioni, replica ai farisei che loro, pur stando tutto il giorno con il naso attaccato alla Sacra Scrittura, in realtà non capiscono quel che leggono, perché per cogliere il significato della Parola di Dio occorre avere un atteggiamento benevolo nei confronti degli uomini, altrimenti il testo rimane oscuro. E Gesù ricorda ad essi un famoso episodio contenuto nel Primo Libro di Samuele (I Sam 21,1-7), dove si narra la vicenda di Davide e dei suoi seguaci in fuga dal re Saul e di come “entrò nella casa di Dio e presi i “pani della presenza” – li prese e mangiò e diede a quelli con lui  – quel che non è permesso mangiare se non ai soli sacerdoti?”. Per Gesù la necessità e il bene dell’uomo vengono prima dell’onore rivolto a Dio, e lui sentenzia che “il Figlio dell’uomo è signore del sabato”.

La caratteristica di chi è signore è quella di agire per decisione propria, non governato da alcuna norma esterna, e questo è ciò che più teme ogni istituzione. Ma mentre Davide può essere giustificato perché ha agito per fame, i discepoli di Gesù no, hanno violato la Legge semplicemente per il loro piacere. Questa anarchia spirituale è inammissibile. Ancora una volta spiazzati e infuriati, i farisei se ne vanno frustrati, ma non demordono. L’appuntamento è per il sabato successivo e questa volta saranno con loro anche gli scribi, quelli che possono giudicare e condannare Gesù, che hanno già definito un bestemmiatore (Lc 5,21), pertanto meritevole della pena di morte.

L’AUTORE – Alberto Maggi (nella foto grande di Basso Cannarsa, ndr), frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme.

Biblista e assiduo collaboratore de ilLibraio.it, è una delle voci della Chiesa più ascoltate da credenti e non credenti. Fondatore del Centro Studi Biblici «G. Vannucci» a Montefano (MC), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Con Garzanti ha pubblicato Chi non muore si rivede, Nostra signora degli ereticiL’ultima beatitudine – La morte come pienezza di vita, Di questi tempi, Due in condotta, La verità ci rende liberi (una conversazione con il vaticanista di Repubblica Paolo Rodari) e Botte e risposte – Come reagire quando la vita ci interroga. Il suo ultimo libro, sempre edito da Garzanti, è dedicato alla figura di Bernadette.

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