In libreria “Heridas – Ventidue racconti dalla Colombia”, antologia dedicata alla narrativa colombiana contemporanea – Su ilLibraio.it l’introduzione di Maria Cristina Secci, curatrice

Dopo Messico, Cuba, Cile e Bolivia arriva nelle librerie Heridas, il quinto volume di dédalos, collana di gran vía edizioni che esplora i labirinti della cuentística latinoamericana. Un appuntamento che quest’anno vede come protagoniste alcune delle voci più significative della Colombia.

Antonio García Ángel, Mónica Gil Restrepo, Luis Noriega, Pilar Quintana, Andrés Mauricio Muñoz, Carolina Cuervo, Gilmer Mesa, Patricia Engel, Andrés Felipe Solano, Mariana Jaramillo Fonseca, Orlando Echeverri Benedetti, Gloria Susana Esquivel, Daniel Ferreira, Margarita García Robayo, Juan Cárdenas, Daisy Hernández, Humberto Ballesteros, Juliana Restrepo, César Mackenzie, Daniel Villabón, Natalia Maya Ochoa, Matías Godoy sono le autrici e gli autori di questa antologia che racchiude lo spirito di una fervente generazione di scrittori, artefici di alcune delle pagine più fiorenti della nuova letteratura colombiana.

Heridas riunisce infatti ventidue autori nati tra gli anni Settanta e Ottanta, una raccolta dunque generazionale di voci, alcune già consacrate e tradotte, altre invece totalmente inedite in Italia.

Variegato è anche il panorama dei temi trattati, cosi come diversificate sono tra loro le cifre stilistiche degli scrittori. Il mondo del narcotraffico, la violenza, la marginalità sociale – così popolarmente associati al Paese Sudamericano –  sono il telone sul quale prende vita un catalogo di situazioni del quotidiano: convivono nelle pagine di questo volume elementi fantastici, dinamiche relazionali tra genitori e figli, il ritratto interiore di un protagonista, la radiografia di un rapporto di coppia, l’anatomia di una paura, il diagramma di un groviglio o di un fallimento familiare, e molto altro.

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Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, l’introduzione di Maria Cristina Secci, curatrice della raccolta: 

Disarmare la parola:  la violenza nascosta  e la traduzione come sovversione

di Maria Cristina Secci

D’improvviso i risorti, in tutte le lingue, accusano Dio:  il vero Giudizio Universale.
Elias Canetti

Al di qua dei conflitti, c’è una violenza che si esercita sulle parole: “come si cerca di dominare i corpi, così si fa con il linguaggio”, sostiene Juan Cárdenas, uno degli autori di Heridas. Ventidue racconti dalla Colombia.

Il gruppo di giornalisti colombiani della Corporación Medios para la Paz ha pubblicato nel 1999 il dizionario Para desarmar la palabra, riunendo quei lemmi relativi al conflitto armato che, come conseguenza dell’uso ambiguo e della disinformazione, cambiano di senso. In condizioni storiche e sociali di guerra, le parole hanno un’altra portata, le grammatiche cambiano, le voci individuali diventano di tutti: secondo Rafael Figueroa Sánchez “sembra fiorire una particolare semantica che arma e disarma la parola nella costruzione di significati che vengono di continuo risemantizzati”.

La violenza nella tradizione narrativa

La Violencia con la maiuscola in Colombia si riferisce a una tragica epoca di conflitto tra il partito conservatore e quello liberale che provocò centinaia di migliaia di morti, milioni di esiliati e assestò una ferita al Paese sotto tutti gli aspetti del vivere. Nonostante l’attribuzione di diverse cronologie, consideriamo La Violencia – “di partito, campesina, ideologizzata e atroce”, come la definisce il sociologo colombiano Carlos Uribe Celis – il periodo che va dal 1946, con il ritorno al governo dei conservatori, al 1967. Le farc erano sorte il 27 maggio del 1964.

Il termine identifica anche due filoni della tradizione letteraria di quell’epoca: Marino Troncoso denomina Narrativa nella Violenza le opere scritte prima del 1958, e della Violenza quelle pubblicate fino al 1965.

Secondo Figueroa Sánchez, leitmotiv della Narrativa nella Violenza, prodotta per lo più da autori liberali, è il terrore nei campi, la spoliazione delle terre, le torture contro le vittime e l’esodo (la terra diventa il tema per eccellenza, basti pensare a testi come Sin tierra para morir di Eduardo Santa, Siervo sin tierra di Eduardo Caballero Calderón, Tierra asolada di Fernando Ponce de León).

La produzione relativa alla Narrativa della Violenza (citiamo qui a mo’ di esempio La mala hora di Gabriel García Márquez,
La casa grande di Álvaro Cepeda Samudio, El día señalado di Manuel Mejía Vallejo) subisce, rispetto alla tradizione precedente, un’evoluzione letteraria ed estetica. Diventa più riflessiva, privilegia il dialogo, moltiplica i punti di vista, sostiene Figueroa Sánchez: “si poetizza il risentimento, la sevizia e le violenze psicologiche, spirituali o morali, il rapporto vittima-carnefice diventa più complesso”.

La violenza nascosta

La terra è ancora oggi un tema di sanguinosa attualità in Colombia e in altri Paesi dell’America Latina, come testimonia lo sterminio dei leader territoriali (168 in Colombia solo nel 2018, come riporta la Defensoría del Pueblo). Secondo Cárdenas, questa violenza che si scatena in situazioni rurali è meno evidente ed è strettamente connessa all’economia globale: i leader sociali, “creatori o sanatori dei territori”, si dedicano alla protezione e conservazione del medio ambiente, laddove “la parola ‘territorio’ deve essere intesa come una costruzione intellettuale, ecologica, politica, culturale, in cui le alternative economiche sono collegate a usi responsabili della terra e delle risorse”.

La giovane generazione di scrittori colombiani è profondamente marcata da questioni politiche, sia per la posizione intellettuale che per la scelta dei soggetti: “In un modo o nell’altro, nessuno è potuto sfuggire alla storia colombiana (come vittima o come testimone), ma ciò non ha impedito l’esplorazione di altri temi nella nostra scrittura”, sostiene César Mackenzie. A unire gli autori della narrativa attuale è il “punto di vista intimo, a volte introspettivo, che si allontana deliberatamente da temi come il traffico di droga e la guerra, imposti alla cultura nazionale per così tanti anni”, sostiene Orlando Echeverri Benedetti, “ciò accade, suppongo, perché la maggior parte dei nuovi narratori prova una certa avversione per la grottesca caricatura che ha plasmato l’identità nazionale”.

La nuova dimensione estetica proietta i suoi autori nella realtà globale: quando la droga si conferma come tema narrativo, il suo sviluppo si allontana da qualunque stereotipo. Cárdenas la considera una potente metafora su come funziona il mondo oggi: “non è solo il gran combustibile del capitalismo, ma nel suo uso c’è un enorme potenziale emancipatore, evidente in altre culture. Paradossalmente la droga è dominazione ed emancipazione allo stesso tempo”.

Per la generazione attuale il conflitto appartiene alla sfera del quotidiano: “La Medellín degli anni Ottanta era violenta, brutale, mafiosa”, ricorda Juliana Restrepo, “io me ne rendevo conto perché piazzavano bombe e quando andavo a scuola passavo davanti a un cai della polizia distrutto e alle mie amiche chiedevo: Avete sentito? I vetri di casa vostra si sono rotti?”

Eppure nell’antologia Heridas l’occorrenza “violenza” si presenta solo tre volte e nei racconti non è un tema esplicito. Secondo Restrepo, la violenza – “vissuta in maniera diversa a seconda delle città o classi sociali o quartieri” – è comunque un punto d’unione per la generazione degli autori di Heridas: “È nascosta, però c’è”.

Anche Humberto Ballesteros riconosce una violenza “sepolta, velata, misteriosa ma inevitabile” nella propria narrativa. “Credo che, sfortunatamente, noi autori colombiani non siamo stati in grado di sfuggirle, in gran parte perché il nostro stesso Paese non ha saputo farlo”, chiarisce l’autore. “La mia generazione si è però dedicata al compito di non giacere come vittima, di non limitarsi a rappresentare la violenza, ma di metterla in discussione, riscriverla. Piuttosto che codificarla, la vogliamo decifrare”.

Pugnalata alle spalle

L’antologia Heridas testimonia il presente letterario colombiano. Si può definire una raccolta generazionale, perché riunisce autori nati nelle decadi Settanta e Ottanta, alcuni già consacrati e tradotti, altri totalmente inediti anche nel mercato editoriale italiano. “Si tratta di scrittori con traiettorie molto diverse”, sostiene Mackenzie. “Una delle caratteristiche più interessanti e preziose del libro è che permette non solo di fare una lettura panoramica degli scrittori attuali in Colombia, ma anche di capire come e quali siano le linee d’influenza di alcuni scrittori (generalmente i più grandi d’età) sugli altri”.

Sono tanti, sono i nuovi nomi della narrativa colombiana. Alcuni di loro sono stati selezionati tra gli scrittori più rappresentativi della letteratura contemporanea ispanoamericana e tanti, forse tutti, sono stati premiati per la loro narrativa. Molti sono promettenti ma altri anche già promessi: pubblicano con Seix Barral, Alfaguara o Mondadori e collaborano con testate come «El País» e «Gaceta»: “In comune abbiamo una circolazione editoriale dei testi che copre tutti gli spettri, dalle grandi case editrici multinazionali fino alle nazionali indipendenti”, considera Mackenzie.

L’antologia vanta poi una partecipazione sostanzialmente egualitaria tra autori e autrici: “Per fortuna siamo una generazione in cui la donna scrittrice non è vista come una entelechia surrogata del mondo maschile”, conclude Mackenzie, nella cui città di nascita e residenza – Bogotá – è stata appena eletta
Claudia López, la prima sindaca donna, “ma si presenta con la sua stessa voce e con una costruzione autoriale che non mette in dubbio l’importanza o la validità della sua visione del mondo”.

La versione in spagnolo di Heridas è stata pubblicata nel 2017 dall’editore colombiano Rey Naranjo, che parla di una letteratura colombiana rinvigorita nonostante il panorama poco roseo del mercato editoriale (“come i salmoni, andiamo controcorrente”, dice riferendosi alla poca fortuna commerciale che notoriamente ha il genere del racconto). Il titolo originale, Puñalada trapera, si riferisce alla “pugnalata alle spalle” che questi autori assestano alla tradizione e alle sue antologie. Secondo Juan Fernando Hincapié, che si è occupato della selezione e edizione dei racconti inediti, con questa antologia, come con un’istantanea, il lettore ottiene una panoramica sulla letteratura attuale in Colombia: una “letteratura nazionale così diversa come lo è il Paese”.

Lontano dalla Colombia

Se la migrazione può essere espressione di circostanze diverse, l’esilio è conseguenza di violenza, persecuzione, guerra. Quello colombiano ha dati drammatici anche recenti: si stima che tra il 2000 e il 2012, durante una delle fasi acute del conflitto, siano andati via dal Paese 400.000 individui.

Questa finestra temporale riguarda anche gli autori di Heridas, molti dei quali hanno vissuto, per ragioni diverse che non approfondiremo in questa sede, fuori dalla Colombia o ancora ci vivono.

In tal senso, la Spagna per i latinoamericani è da sempre terra privilegiata per i vincoli storici e per la vicinanza linguistica e culturale, ma oggi l’esperienza di migrazione appartiene al mondo globale di Babele. “Vivere in una lingua che non fosse la mia, mi sembrò un’espansione di quel che non ero io fino a quel momento”, considera Juliana Restrepo, di nuovo a Medellín dopo cinque anni a Parigi. “A ogni nuova lingua che impari, attribuisci nuove proprietà alle cose, nuovi aggettivi ai sostantivi”.

Echeverri Benedetti, che dalla Colombia è andato via a ventisei anni, non ci è più tornato, almeno non con l’intenzione di rimanerci. Dopo aver vissuto in Argentina, Spagna e Thailandia, ha viaggiato in lungo e largo per l’Europa grazie al premio in denaro del Concurso Nacional de Literatura e oggi vive nel Regno Unito: “A livello linguistico, lontano dalla Colombia, ho assorbito nel tempo il vocabolario di altre regioni e l’ho incorporato nella mia scrittura”, dice l’autore. “Forse è per questo che alcuni critici colombiani ritengono strana la voce della mia narrativa, la quale sembra appartenere al mondo intero e a nessuna parte”. Anche Ballesteros, che vive a New York dall’età di venticinque anni, legge tutto il possibile nelle lingue che conosce e pratica, “perché le parole sono il mio amore e gli strumenti del mio lavoro”.

Tra gli autori di Heridas, ci sono anche storie di migrazione al contrario. Cárdenas, dopo una lunga permanenza all’estero, in particolare tra Spagna e Portogallo, è rientrato in Colombia nel 2013: “Dopo diversi anni in Europa, la mia idea di patria si è ampliata e sento di aver fatto ritorno a una ben più grande: America Latina”.

La traduzione come sovversione

Alla base dell’esperienza dell’essere straniero – immigrante, esiliato, espatriato, rifugiato, clandestino – c’è sempre un’esperienza di traduzione: lo si fa per autodeterminarsi, per questioni finanziarie, perché se ne ha diversamente bisogno. “Come tutti gli immigrati, ho tradotto occasionalmente per una questione economica: manuali di macchinari, lettere diplomatiche, pagine di ricette e persino i sottotitoli di un paio di film italiani, ma mai letteratura”, spiega Ballesteros.

Secondo Echeverri Benedetti la traduzione è piuttosto un’arte simile alla recitazione: “La poesia tradotta non potrà mai essere come l’originale, ma può avvicinarsi alla sua essenza, alla sua musicalità, al suo senso”, sostiene l’autore. “Risiede qui la responsabilità e la professionalità del traduttore: nel cercare la reinvenzione più incontaminata e fedele di un testo senza rompere il meccanismo che lo fa funzionare nella sua lingua originale”.

I traduttori e gli scrittori migranti, nell’integrarsi all’economia del Paese che li accoglie, contribuiscono allo sviluppo e alle metamorfosi della società, sono attori imprescindibili del travaso culturale. È innegabile la ricchezza che apportano in materia di lingua e cultura: sono divulgatori del proprio senso delle cose, di un corpus lessicale che incarnano nel quotidiano; contribuiscono alla continua evoluzione delle lingue, di quel “sistema di significati meravigliosamente vivo, in piena e incessante trasformazione”, secondo Mackenzie. I traduttori sono importatori letterari, come sostiene Alejandrina Falcón, e tradurre è un’importante fonte di sostentamento per scrittori, poeti e giornalisti. Bisognerebbe però ragionare anche sui pegni che questa condizione impone e riflettere, per esempio, sul peso dell’autocensura nell’immigrato-traduttore che cerca di adattarsi alle norme estetiche e di pensiero del Paese che lo accoglie.

L’ambientamento culturale può risultare feroce per il traduttore, come può esserlo appunto l’(auto)censura, l’imposizione di certi effetti nel testo di arrivo per ragioni commerciali o di pensiero, un addomesticamento scriteriato. Lawrence Venuti riconosce nel processo di traduzione una “violenza etnocentrica”, inevitabile: “le lingue, i testi e le culture straniere saranno sempre sottoposte a qualche grado e forma di riduzione, esclusione, iscrizione”.

Interrogato sul tema, Ballesteros considera che la traduzione possa sì essere un atto violento (“secondo il vecchio adagio, traduttore-traditore”), ma solo nella misura in cui lo è l’amore: “Come l’amore, la traduzione implica l’attrazione dell’altro verso sé stessi, senza costringerlo a perdersi ma motivandolo a trasformarsi”. Secondo Restrepo, violenta è una traduzione brusca, come qualsiasi pretesa di uniformità: “Tradurre bene è invece un atto espansivo, come quando s’impara una lingua. Il testo non è più quello che era, i sostantivi possono avere nuovi aggettivi e i tempi verbali cambiano”.

Violento può essere l’assalto alle regole di chi pratica la traduzione, l’ammutinamento delle grammatiche, il sovvertimento delle regole linguistiche e sociali. José Ortega y Gasset sosteneva che “scrivere bene significa fare piccole erosioni alla grammatica, all’uso prescritto della lingua e alle sue regole vigenti. È un atto di permanente ribellione contro il contesto sociale, una sovversione”. Il traduttore, a giudizio del filosofo spagnolo, normalmente è un pusillanime davanti all’imponente grammatica e al suo uso pedante. “Cosa farà il traduttore con il testo ribelle? Non è forse troppo chiedergli di essere anche lui ribelle e per conto di altri?”

Bibliografia

Cárdenas, Juan, Economía del exterminio, «El País», 22 gennaio 2019.

Cárdenas, Juan; Echeverri Benedetti, Orlando; Mackenzie, César; Restrepo, Juliana, conversazioni e corrispondenze personali con la curatrice, 2019.

Corporación Medios para la Paz, Para desarmar la palabra, Diccionario de términos del conflicto y de la paz, Corporación Medios para la Paz, Bogotá 1999.

Falcón, Alejandrina, Traductores del exilio. Argentinos en editoriales españolas: traducciones, escrituras por encargo y conflicto lingüístico (1974-1983), Iberoamericana-Vervuert, Madrid 2018.

Figueroa Sánchez, Cristo Rafael, Gramática-Violencia: una relación significativa para la narrativa colombiana de segunda mitad del siglo XX, Tabula Rasa n. 2, 1994, pp. 93-210.

Ortega y Gasset, José, La missione del bibliotecario e Miseria e splendore della traduzione, Sugarno, Carnago 1994, traduzione di Amparo Lozano Maneiro e Claudio Rocco.

Troncoso, Marino, De la novela en la violencia a la novela de la violencia: 1959-1960, in Tittler Jonathan (a cura di), Violencia y literatura en Colombia, Orígines, Madrid 1989, pp. 31-40.

Uribe Celis, Carlos, La mentalidad del colombiano. Cultura y sociedad en el siglo XX, Alborada, Bogotá 1992.

Venuti, Lawrence, L’invisibilità del traduttore, Armando Editore, Roma 1999, traduzione di Marina Guglielmi.

 

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