A pochi giorni dalla convention dei Repubblicani arriva in libreria “La febbre di Trump – Passioni e misteri del ciclone politico che ha sconvolto l’America”. L’autore, Mattia Ferraresi, si sofferma sulll’anti-intellettualismo del discusso candidato, e ricorda: “Isaac Asimov lo chiamava ‘il culto dell’ignoranza’, una fede vecchia quanto l’America”

Uno dei tratti della figura di Donald Trump è l’anti-intellettualismo, una forma allergica verso il sapere concettuale che ha preso gli Stati Uniti molto prima che Richard Hofstadter ne fissasse i connotati nel saggio Anti-Intellectualism in American Life. Quando è stato pubblicato, nel 1963, Trump era all’ultimo anno della scuola militare, una delle fasi della sua formazione anti-intellettuale. Hofstadter indaga un’inclinazione che nobilita il sapere pratico a spese di quello teoretico, dove l’efficienza è la stella polare e le competenze sono viste con sospetto; la capacità di conformarsi al contesto sociale è una virtù più importante dello sviluppo di una personalità originale; l’analisi domina sulla sintesi; il successo rende il gusto della conoscenza una questione strumentale; a scuola «non si insegnano Shakespeare e Dickens ma come scrivere una lettera di lavoro». In questo mondo non c’è spazio per le complicazioni dell’intellettuale, colui che «trasforma le risposte in domande», secondo l’acuta formula di Harold Rosenberg.

Isaac Asimov lo chiamava «il culto dell’ignoranza», una fede vecchia quanto l’America. «L’anti-intellettualismo innerva tutta la nostra vita politica e culturale, alimentato dalla falsa idea che la democrazia significhi che la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza». Nel suo viaggio nella democrazia americana, Alexis de Tocqueville aveva afferrato immediatamente la visione anti-intellettuale che pervadeva il popolo. Scrive Hofstadter: «Tocqueville ha visto che la vita di costante azione e decisione implicata nel carattere democratico e pragmatico della vita americana assegna un premio alle abitudini di menti svelte e grossolane, alle decisioni rapide e alla prontezza nel cogliere le opportunità. Tutte queste attività non propiziavano però la deliberazione, l’elaborazione e la precisione nel pensiero». Un Tocqueville a zonzo per la campagna elettorale del 2016 sottoscriverebbe, passando in bella copia gli appunti presi quasi due secoli prima.


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L’avversione all’intellettualismo è radicata in America già dal puritanesimo, che metteva in guardia dai vizi diabolici collegati alla conoscenza. Un paio di decenni dopo l’approdo della Mayflower, il teologo John Cotton scriveva: «Più sei istruito e arguto, più sarai prono ad agire per conto di Satana».

Da questo bacino della tradizione popolare hanno attinto, con vari gradi di profondità, molti presidenti. Richard Nixon faceva un vanto del suo disprezzo per gli intellettuali, che chiamava «Harvard bastard», esemplari minoritari di un tipo umano e culturale antitetico a quello che dominava la sua «maggioranza silenziosa». Al suo capo di gabinetto urlava «Basta con questi bastardi!», anche se poi ha nominato consigliere per la sicurezza nazionale Henry Kissinger, docente ad Harvard. Ronald Reagan era fiero di essere venuto da Hollywood e non dai circoli intellettuali del nordest e pure Bill Clinton, che invece aveva il pedigree universitario in regola (laurea a Georgetown, specializzazione a Oxford, scuola di legge a Yale), ha annacquato pubblicamente la propria capacità concettuale per dare spazio all’immagine dell’uomo dell’Arkansas che mangia costine con salsa barbecue e suona il sassofono.

Trump ha portato questi elementi al parossismo, ma non ha inventato nulla. Non è uno sciroccato né un monomaniaco o un furbacchione con una strategia di marketing nella manica. O almeno non è soltanto questo. È il sottoprodotto di una cultura popolare che si trova naturalmente equipaggiata con un dispositivo per capire il trumpismo. «I love the poorly educated!» è lo sghembo grido con cui Trump si sintonizza con il popolo.

Trump

IL LIBRO E L’AUTORE – Chi è Donald Trump? Un cialtrone o un autentico fenomeno americano? Nel libro La febbre di Trump – Passioni e misteri del ciclone politico che ha sconvolto l’America (Marsilio), Mattia Ferraresi, giornalista che racconta l’America come corrispondente per Il Foglio, ne ricostruisce i mille volti: gli inizi da figlio scapestrato di un clan di palazzinari, la conquista di Manhattan, il bisogno di legittimazione. Poi la formazione di una visione politica: nazionalista in un mondo cosmopolita, populista nostalgico di un conservatorismo leggendario. Si è trasformato in candidato-tuttofare: autore, regista e spin doctor di se stesso, multiforme animale da palco che parla una lingua ultrasemplificata a misura di tweet. II libro è un «bilancio preventivo» del trumpismo, ne indaga le cause profonde e spiega perché l’idea di «Make America great again» sta muovendo pancia e coscienza degli Usa.

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