Come si fa a dar voce al destino di un personaggio senza che sia uno svolazzo narcisistico? Su ilLibraio.it la riflessione di Caterina Serra, scrittrice e sceneggiatrice: si parte da Virginia Woolf, che ci tiene a smontare la tesi millenaria per cui la scrittura sarebbe asessuata, universale, neutra, e che si diverte a fare della verticalità di quella barra (“I”) una rappresentazione fallica, per arrivare a John Berger… Secondo l’autrice di questo viaggio nel tempo letterario, “perfino per raccontare la propria vita è necessario trovare una voce, una voce che non sia la nostra…”

Ma dopo aver letto uno o due capitoli sembrò che un’ombra si stendesse sulla pagina.

Virginia Woolf, in Una stanza tutta per sé, si riferisce all’autore di un romanzo che lei stessa sta leggendo. La straight dark bar del suo Io – I, nell’inglese che dà ancora meglio conto della forma erettiva di quell’io, invade il testo, gli fa ombra.

Dopo avere elogiato l’autore che trova diretto, dotato di una grande fiducia in se stesso, di una notevole libertà di pensiero, Woolf si rammarica di quanto, dopo poco, risulti autosufficiente, dominante, concentrato su di sé. Tanto da non avere bisogno di altri, da essere così noioso. Why was I bored?, si domanda. La noiosa ripetizione dell’io che anziché andare avanti procede all’indietro, e  torna sempre a sé, dà origine a un moto di rigetto, di rifiuto, come a dire, basta, abbiamo capito, Io, Io, e noi?

Woolf si diverte a fare della verticalità di quella barra una rappresentazione fallica, provoca dicendo che all’ombra enorme di quell’io così eretto, così rigido e dritto come un gigantesco faggio, non può crescere nulla.

È il 1928, Woolf viene invitata a tenere una lezione a Cambridge su Le donne e il romanzo.

Mette a confronto opere dei due sessi, e ci tiene a smontare la tesi millenaria per cui la scrittura sarebbe asessuata, universale, neutra. Quell’Io che sulla pagina si prende tutto lo spazio, si issa come una bandiera a dominare un territorio, è ovviamente il sesso forte, virile, autosufficiente, bastante a sé, che l’epoca, la cultura fascista, esalta, e che tanto la annoia. Uomini e donne, per Woolf, scrivono pensando fatalmente al proprio sesso. Un Io, maschile o femminile che scrive lo fa a partire da condizioni storiche, condizionamenti sociali, da un mondo culturale e un sistema di valori che ne fanno consapevolmente o involontariamente l’espressione.

Questo non vuol dire che ci sia una scrittura femminile o maschile, non è una questione di stile. Altra noiosissima questione. Semplicemente, l’Io che scrive non è neutro, per come vive, per come guarda, e desidera, per come viene educato, e si educa alla relazione con gli altri, per come ama.

Qualche anno fa, un giorno d’estate, ho chiesto a John Berger se avrei potuto raccontare una storia dal punto di vista di un uomo, se avrei potuto usare il suo linguaggio, il suo modo di vedere, se avrei saputo usare le sue parole, il suo sguardo sulle cose. John, che mentre ascoltava si era inginocchiato per smuovere un fuoco e soffiare sulle braci, mi disse che non c’era alcuna differenza, che quel che c’era sul nostro tavolo erano pur sempre una bottiglia, dei bicchieri, del vino, e che il modo in cui avrei descritto la nostra cena, sarebbe stato diverso dal suo per una questione di esperienza, di vita vissuta, di ricordi, di modi di essere. Non era una questione di genere, insomma, il mondo lo potevo guardare come un uomo lo guarda, perché anche due uomini lo guardano in modo diverso. E così lo scrivono. In effetti, nel mettermi nella testa e nel corpo di un uomo, avevo avuto la sensazione precisa che sarebbe stato difficile raccontare la sua storia sentendo come lui, toccando, pensando, amando come lui. Invece, forse aveva ragione Berger, non dovevo avere paura, il mondo lo vediamo comunque tutti in modo diverso, non è una questione di maschile o femminile.

A quel punto è intervenuta Beverly, la compagna di tutta una vita, editor, e curatrice di ogni scritto di Berger, seduta, le mani impegnate a disporre peperoni e pomodori bruciati al fuoco su una grande piatto circolare. È vero, dice, ma un uomo che guarda una donna, non la guarda come la guarderebbe una donna.

Come dire, possiamo guardare tutto a partire da noi stessi, e raccontarlo senza che questo implichi una differenza di genere nel come lo raccontiamo, ma se ci mettiamo a guardare l’altro, il linguaggio cambia perché lo sguardo cambia, perché da tutta la storia un uomo che guarda una donna la guarda da uomo.

E così torno a Woolf, e alla fatalità di una scrittura che non può non partire dall’attraversamento della propria esperienza, della propria vita, come in fondo sentiva Berger che se non ha messo l’accento sul genere è solo perché non c’è un solo suo romanzo, un solo suo scritto che abbia a che fare con quella barra scura e ingombrante che si pianta sulla scena facendo fuori gli altri, le altre.

Ma come si fa a raccontare qualcosa che ci riguarda, che ci appassioni umanamente, intellettualmente, politicamente, a raccontare la storia di qualcuno senza che al centro si finisca per mettere la propria storia personale, il proprio destino singolare? Come si fa a dar voce al destino di un personaggio senza che sia uno svolazzo narcisistico?

Non credo sarò mai capace di inventare un personaggio di fantasia. Come se non ci volesse abbastanza fantasia per scrivere di un personaggio reale, per farne cioè un personaggio letterario. Ho sempre bisogno di andare a vedere, di toccare, di sentire con la bocca, con il naso, quello di cui voglio raccontare. Come se per scrivere avessi bisogno, ma anche desiderio, di attraversare col mio corpo quelle strade, di passare la notte e il giorno nel modo in cui in quella certa realtà lo si passa.

Ma esperienza non è necessariamente biografia. Perfino per raccontare la propria vita è necessario trovare una voce, una voce che non sia la nostra. Susan Sontag la chiamerebbe forma, l’unica capace di esorcizzare quell’Io noioso e arrogante, di impedire che il racconto diventi esibizione del proprio piccolo vissuto ombelicale.

C’è un personaggio a cui ho lavorato a lungo: una donna che non compare mai fisicamente, che il suo corpo e la sua storia la affida a strisce di carta lunghe e strette come lingue di camaleonte. Ci scrive sopra, come avesse scelto di farsi conoscere attraverso la scrittura, di farsi trovare così, di esserci in una forma che è solo apparentemente inerte e astratta. Mentre in realtà la sua è una forma di assenza che lascia spazio all’altro, una forma di silenzio che lascia all’altro la parola, una forma di invito che è libertà reciproca: leggi, per sapere, senza ombre, chi sono.

Caterina Serra Padreterno

L’AUTRICE – Caterina Serra, scrittrice e sceneggiatrice, è in libreria per Einaudi con Padreterno. Il romanzo è la storia di Aristeo, nome da dio minore. Figlio unico. Adorato. Maschio. Un dialogo muto con un padre morente sul crinale di una vita divisa tra erudizione, desideri mancati, e violenza. È la storia d’amore con Nina, la sua donna, “che parla la lingua dei leoni”, che gli scrive parole dentro una casa viva e dolorosa. Nina che non riesce a possedere, che se ne va, che ride di lui. Che ha forme d’amore che lui non capisce. “Le donne le guardi come gli uomini le guardano da tutta la Storia. È sempre lo stesso sguardo. Sono sempre le stesse donne?”. Aristeo si scontra con l’incapacità di conoscere le donne, con l’invidia per la loro libertà, con l’esercizio del potere come forma di amore, con desideri che non può confessare e che ci vengono sbattuti in faccia. “Non lo so. Però da qualche parte deve pur venire. Mentre a me sembra naturale come se ci fossi nato. È tutto buio, mi sento piú forte, piú vero, e mi perdo, come se non fossi piú padrone di me stesso. O fossi ancora quel bambino, onnipotente, che sa dire solo voglio”.

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