“La letteratura sugli usi impropri dell’apostrofo è ricchissima e spassosa…”. Massimo Roscia, in libreria con “Di grammatica non si muore”, interviene su ilLibraio.it

Nel suo nuovo libro, Di grammatica non si muore – Come sopravvivere al virus della punteggiatura e allo sterminio dei verbi (Sperling & Kupfer), Massimo Roscia, già autore del romanzo La strage dei congiuntivi (Exorma, 2014), passa in rassegna le fondamenta dell’italiano e si diverte a calarle in esempi contemporanei, riprende gli svarioni più comuni (dall’uso maldestro dell’accento all’abuso disinvolto dell’apostrofo) creando giochi promemoria per non essere più indotti in errore; si batte per la salvaguardia delle forme (utili) in estinzione, come il congiuntivo, e invoca il debellamento della pandemia di ciaone e apericena.

massimo roscia

In vista della presentazione milanese del suo libro, in programma il 22 novembre, Roscia interviene su ilLibraio.it per parlare dell’apostrofo, e di chi lo “maltratta”… Ecco il suo intervento, illustrato dall’autore stesso:

NON MALTRATTATE LAPOSTROFO

È piccolo, inerme, cedevole. È una dolce carezza, un sopracciglio ammiccante, un sussurro d’inchiostro, una lacrima lasciata in dono dalla vocale perduta. È l’apostrofo, quel segno rappresentato graficamente da una virgoletta che galleggia nell’aria. Non fa male a nessuno; se ne sta lì buono a segnalare la caduta di una o più lettere di una parola. È solo, indifeso, esposto e, proprio per questo, crudelmente maltrattato. Noi sorridiamo, ma il risultato di queste continue omissioni, inopportuni inserimenti e spregiudicati abusi genera orribili mostriciattoli. Noi sorridiamo, ma l’apostrofo è lì che soffre.

Lapostrofo

L’illustrazione è stata realizzata dall’autore del libro e dell’articolo

Cera una volta… Cera invece di c’era, che sta per ci era (con la i di ci – avverbio di luogo – che dovrebbe essere elisa); c’è né invece di ce n’è, con l’apostrofo che compare dove non dovrebbe e, al contrario, scompare dove dovrebbe essere messo; lo esperimento, evidentemente non riuscito, in cui l’obbligo di elidere l’articolo determinativo maschile singolare lo viene disinvoltamente disatteso; un’abbraccio, con quel segno sconsiderato che rende spiacevole persino un gesto d’amore; po’, che muta in con l’accento (tanto, apostrofo e accento si somigliano e non se ne accorge nessuno) o, privo di orpelli grafici, è trasformato nel fiume che attraversa la Pianura Padana; qual’è invece del corretto qual è, che – non ci stancheremo mai di ripeterlo – è un troncamento e non un’elisione. «Non centra niente». Centra, voce del verbo centrare; «Tamo da morire». Tamo, voce del verbo tamare.

La letteratura sugli usi impropri dell’apostrofo è ricchissima e spassosa. «È più di un ora che aspetto», «Dalle dieci, allincirca», «Doveri andato a finire?», «È tutta colpa l’oro», «Non problema», «Sono daccordo con te», «Dici d’avvero?», «Può d’arsi», «Ho preso centodieci e l’ode», «L’ascialo stare», «Te lo ripeto per lennesima volta», «Un’uomo solo al comando», «Cantiamo linno d’Italia», «Grazie l’ostesso». «La medaglia doro e la cornice dargento», «Salvador D’Alí e García L’Orca», «Il Padre Nostro e Lave Maria». Torture, mutilazioni, sevizie… Noi sorridiamo, ma l’apostrofo, piccolo, inerme, cedevole, è lì che soffre.


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