“Il pregiudizio universale” è una sorprendente raccolta di testi in cui numerosi autori, specializzati in ambiti diversi, smontano, uno per uno, quei luoghi comuni che infarciscono le conversazioni di ogni giorno… Su ilLibraio.it il capitolo firmato da Gino Roncaglia, che si chiede: “Esistono davvero, i nativi digitali?”

“L’abito non fa il monaco”, “le donne non sanno guidare”, “i giovani non leggono”, “gli immigrati ci rubano il lavoro”, “non ci sono più le mezze stagioni”… Pregiudizi, luoghi comuni, credenze: “sono tutte quelle cose che ognuno di noi crede di sapere sulla base non di una vera informazione, ma di una percezione più o meno passivamente condivisa. Come recita un facile aforisma, d’altronde, il pregiudizio peggiore è quello di chi crede di non avere pregiudizi“.

Così scrive Giuseppe Antonelli nell’introduzione a Il pregiudizio universale (Laterza), una ricca raccolta di testi scritti da un insieme di autori che smontano, uno per uno, tutti quei luoghi comuni che riempiono le conversazioni di ogni giorno. Così Veronica De Romanis sfata la credenza secondo cui “l’austerità è imposta dalla Germania”; Antonella Agnoli non crede che “le biblioteche sono luoghi noiosi”; Alberto Mario Banti e Telmo Pievani hanno qualche dubbio sul fatto che “buon sangue non mente”. Dal canto suo, Franco Farinelli dubita che “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare” mentre Oscar Iarussi scredita il mito secondo cui “i festival culturali lasciano il tempo che trovano” e Carlotta Sami spiega perché non è vero che “siamo invasi dai rifugiati”.

Che sia davanti al caffè mattutino, aspettando l’ascensore o discorrendo con il signore seduto nel posto accanto sul treno, spesso le cosiddette “chiacchiere” giornaliere si infarciscono di credenze ormai date per scontate, ma che spesso mancano di un reale fondamento di verità.

il pregiudizio universale

Per gentile concessione dell’editore ne riportiamo un estratto, firmato da Gino Roncaglia (tra le altre cose, collaboratore de ilLibraio.it)

Gli adolescenti sono nativi digitali

di Gino Roncaglia 

Esistono davvero, i nativi digitali? E rappresentano davvero una mutazione antropologica, quasi si trattasse di una nuova specie? La vulgata televisiva e giornalistica sembra avere pochi dubbi, e usa questa espressione con frequenza e disinvoltura. Ma la realtà è ben diversa.

Cominciamo da un po’ di storia. L’espressione «nativi digitali » è stata introdotta nel 2001 dallo statunitense Marc Prensky, insegnante e consulente nel campo dell’innovazione educativa.(1) Secondo Prensky i nativi digitali – ovvero la generazione nata dopo il 1985, data che coincide più o meno con l’avvio della penetrazione generalizzata dell’informatica personale nelle nostre case – «pensano e gestiscono l’informazione in maniera essenzialmente diversa rispetto ai loro predecessori».

Una volta arrivati al college, hanno trascorso in media «solo 5000 ore leggendo, ma oltre 10.000 ore usando videogiochi». Il loro universo esperenziale è radicalmente diverso da quello dei loro genitori, che sono invece solo «immigrati digitali». Questo, associato al concetto di plasticità cerebrale (l’organizzazione dei collegamenti neurali cambia in funzione delle nostre esperienze e attività, e in particolare di quelle svolte con maggiore frequenza), porta Prensky a sostenere che «i cervelli dei nostri studenti sono cambiati fisicamente – e sono diversi dai nostri – come risultato del loro diverso modo di crescere».

In seguito, in un articolo del 2009(2), lo stesso Prensky ha proposto di sostituire al concetto di nativi digitali quello di «digital wisdom», più flessibile perché ammette gradazioni e la distinzione di competenze digitali diverse. È però rimasto fermo sull’idea di un sostanziale mutamento antropologico fra la generazione pre-digitale e la generazione digitale, tanto da introdurre l’espressione homo sapiens digital per identificare l’emergere di un nuovo tipo di persona «digitalmente arricchita».

Le tesi di Prensky hanno suscitato un acceso dibattito. In Italia sono state riprese da Paolo Ferri, che ha intitolato proprio Nativi digitali un suo libro del 2011(3) (in seguito Ferri ha preferito l’espressione «nuovi bambini»(4), senza però abbandonare l’idea di una differenza antropologica rispetto agli immigrati digitali), mentre sono state criticate da Roberto Casati(5), Mirko Tavosanis(6) e altri. Non proverò qui a ricostruire il dibattito, limitandomi a esporre le ragioni principali per cui l’idea dell’avvento di una generazione di «nativi digitali» antropologicamente diversi dalle generazioni precedenti mi sembra sbagliata.

Innanzitutto, c’è un problema terminologico. Quando parliamo di digitale parliamo in realtà di una forma di codifica. Gli ‘0’ e gli ‘1’ del codice binario sono usati per rappresentare informazione (testi, immagini, suoni, video, istruzioni di programma…), ma a usare la codifica digitale è il computer, non l’uomo: è probabile che nel nostro cervello collaborino meccanismi di codifica dell’informazione basati su stati discreti e meccanismi basati su modifiche continue di stato, ma questa è tutt’altra questione. «Nativi digitali» non siamo dunque né noi né i nostri figli, ma semmai i nostri computer.

Resta però la questione principale: al di là dell’espressione infelice, esiste davvero una differenza antropologica fra le generazioni precedenti e quelle successive alla rivoluzione digitale? Riassumerò qui, in maniera assai sintetica, tre motivi per cui questa tesi, nelle forme in cui è solitamente esposta, mi sembra insostenibile.

Prensky ricorda che i bambini di oggi passano molto più tempo di quelli della generazione precedente davanti a un videogioco, e molto meno tempo a leggere. In realtà la seconda parte di questa affermazione è falsa, come mostra, in un altro dei saggi di questo libro, Giovanni Solimine. Ma indipendentemente da questo, la stessa considerazione era stata fatta negli anni Sessanta con il boom della televisione: anche in quel caso c’era stato chi aveva parlato di differenza antropologica fra le generazioni precedenti e di un nuovo «uomo televisivo». Si potrebbe andare ancora più indietro, alle generazioni cresciute con la radio, o all’avvento dell’automobile, ma… davvero vogliamo inventarci una mutazione antropologica ogni trent’anni? Non è molto più sensato parlare, anziché di mutazioni antropologiche, di evoluzioni e talvolta rivoluzioni tecnologiche e culturali, che influenzano il modo in cui noi – e non qualche nuova e diversa forma di umanità – interagiamo con il mondo e lo modifichiamo?

Quanto all’argomento della plasticità cerebrale, mi sembra basato su un fraintendimento dei dati che vengono dalle neuroscienze. Certo, i collegamenti cerebrali sviluppati da chi utilizza ogni giorno i touch screen di uno smartphone sono nuovi e specifici, e dato che la plasticità è maggiore da giovani, guardiamo con invidia (o con preoccupazione) i nostri figli che digitano sulla tastiera virtuale a una velocità che non sapremo mai eguagliare. Ma esattamente la stessa plasticità cerebrale trasforma l’acqua in una seconda natura per il bambino che impara a nuotare da piccolo (e certo, da qualche parte nel suo cervello ci sono collegamenti neurali che non ci sono in chi non sa nuotare), senza che questo ci porti a considerarlo seriamente un uomo-pesce. Chi legge, chi scrive, chi guida, chi scia, ma anche chi si è abituato fin da piccolo a usare il telecomando della televisione e non capisce la difficoltà che incontrava il nonno per cambiare canale, «addestra» e modifica aree cerebrali specifiche. Ciascuno di noi la usa in modi diversi, ma la plasticità cerebrale è una caratteristica comune degli esseri umani, non il fondamento di infinite mutazioni antropologiche.

Ultima questione, non meno importante. Quale sarebbe, esattamente, la generazione dei «nativi digitali»? Nel 2001, quando Prensky scriveva i primi articoli sul tema, non esistevano ancora i tablet o gli smartphone. Interfacce informatiche, abitudini, competenze, dieta mediatica dei quindicenni del 2001 erano completamente diverse da quelle dei quindicenni di oggi (provate a mettere in mano un joystick a chi gioca a Pokémon Go sullo smartphone: non saprà cosa farsene, e forse non saprà neppure di cosa si tratti). Certo, si può eludere il problema parlando di generazioni diverse di nativi digitali. Ma le differenze sono così notevoli da rendere quantomeno problematico collegarle attraverso una presunta «intelligenza digitale» comune.

Accantoniamo dunque l’idea – il pregiudizio – di un improvviso salto evolutivo fra l’homo sapiens e l’homo sapiens digital, fra immigrati e nativi digitali. Questo ovviamente non implica in alcun modo che le differenze fra prima e dopo la rivoluzione digitale – in particolare nell’ecosistema informativo e comunicativo delle nuove generazioni – non ci siano. Ci sono, e di enorme rilievo. Ma a queste differenze dobbiamo guardare nella loro articolazione, nella loro complessità, nella loro evoluzione, senza essere condizionati da uno schema interpretativo decisamente troppo semplicistico.

Note:

(1) Marc Prensky, Digital Natives, Digital Immigrants, in On the Horizon, MCB University Press, vol. 9 No. 5, October 2001,  in rete qui; e Digital Natives, Digital Immigrants, Part II: Do They Really Think Differently?, in On the Horizon, MCB University Press, vol. 9 No. 6, December 2001, in rete qui.

(2) H. Sapiens Digital: From Digital Immigrants and Digital Natives to Digital Wisdom, in Innovate:  Journal of Online Education, vol. 5 issue 3, February/March 2009, in rete qui.

(3) Paolo Ferri, Nativi digitali, Bruno Mondadori, Milano 2011.

(4) Paolo Ferri, I nuovi bambini. Come educare i figli all’uso della tecnologia, senza diffidenze e paure, Rizzoli, Milano 2014.

(5) Roberto Casati. Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere, Laterza, Roma-Bari 2013, e Id., La balla dei nativi digitali, nel Domenicale de «Il Sole 24 Ore», 30 dicembre 2012.

(6) Mirko Tavosanis, recensione a Paolo Ferri, Nativi digitali cit., nel blog Linguaggio e scrittura, 16 aprile 2013, in rete qui.

(Continua in libreria…)

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