“The Undoing – Le verità non dette”, la serie HBO con Nicole Kidman e Hugh Grant, ispirata al romanzo “Una famiglia felice” di Jean Hanff Korelitz, presenta l’atmosfera destabilizzante di un mistery intricato, facendoci precipitare nel territorio dell’inquietudine e del disorientamento della sua protagonista, in un mondo in cui nulla è più come prima. Nel corso della detection e con il dipanarsi del legal thriller, distribuendo con abbondanza ribaltamenti di prospettiva e colpi di scena, scene madri e scene padri, rivelazioni più o meno attese e moltiplicazione dei sospetti, riesce a tenerci agganciati fino alla fine – L’approfondimento

Palla di vetro, bolla di sapone. Una parete sottile, pellicola trasparente che protegge, isola, distorce e ammalia: al di là, neve di stelle, gocce di rugiada, un fiore che sboccia (Rosebud?). Fin dai suggestivi titoli di testa, The Undoing – Le verità non dette (HBO, in Italia su Sky) ci trasporta nell’universo mentale sfocato, originario, segreto e sognante della sua protagonista (“sei stata sempre brava a rincorrere i fantasmi” le dirà il padre a un certo punto).

Nel volto paffutello, chioma rossastra e riccioluta, di un’infanzia abbacinata e onirica – come in un vecchio video famigliare sfarfallante e sovraesposto, in dissolvenza – fra abbagli arcobaleno e pozzanghere, carte da parati, colori pastello, riflessi luminosi e ombre ribaltate, pizzi di proiezioni matrimoniali e un inatteso, quasi subliminale, sprizzo di sangue, si aggira e si rivela la scintilla dell’anima Grace, sola, levitante, angelica, e insieme sottilmente diabolica, nel suo stato di sospensione, nel suo sguardo in camera (e in cameretta) curioso e penetrante. Sulle note sapientemente alterate di Dream a Little Dream of Me, Susanne Bier, grande senso del dettaglio e sguardo personale, ci accompagna nello spazio inconscio della protagonista, nel suo sogno di sé. Con potente coerenza visiva e raffinata forza indiziaria.

Introdotta da questa premessa interiore (ricordata? immaginata?), la silhouette spettrale di Nicole Kidman, che pare uscita da un dipinto preraffaellita e da una macchina del tempo, fornisce allora il corpo perfetto all’elegante psicanalista che abita il mondo esclusivo e protetto di una New York oscura e livida, rivestita (lei e la città) di una palette che oscilla tra il ramato e il verdognolo (catturata da una fotografia espressionista, quasi autoptica), che riverbera le tonalità predilette di un femminile diafano, passionalmente algido, esperto nel guardare dentro le anime altrui, ma costretto a farsi anima in pena che vaga inquieta e persa per le strade della metropoli come in un incubo, assalita dai suoni graffianti di Manhattan e dalle ombre contundenti dei suoi demoni.

Se nel suo studio dell’Upper East Side, in avvolgenti interni rosati, la protagonista di The Undoing è capace di vedere con precisione e perspicacia dietro agli sguardi reticenti e nei deboli alibi dei suoi pazienti, tuttavia si ritrova interdetta e spaventa di fronte a quello che improvvisamente le si presenta allo specchio, il suo, di volto, e quello desiderato/wanted di un marito idolatrato quanto (perciò) ignoto. Hugh Grant è Jonathan Fraser, impeccabile padre-consorte gentleman e oncologo salvatore di bimbi, sicuro e charmant al limite della sfrontatezza (“quanto cazzo di fascino pensi di avere?”, lo smaschererà con una battuta il suo stesso avvocato, al di là di ogni ragionevole dubbio). E le verità nascoste, per citare un film di Zemeckis con non poche affinità, penetrano e corrompono, incrinano fino a farlo implodere, il quadretto famigliare che la coppia si è dipinta addosso.

Del resto la ritrovata perfezione bambolesca e impenetrabile della star (precisamente Aldo Nove definì Kidman “il volto femminile di Dio” e il critico David Thomson dedicò un libro intero, in Italia pubblicato da Sperling & Kupfer, all’incanto magnetico e inafferrabile dell’attrice), luccicanza di una novella Dorian Grey, è gettata d’un tratto nella selva oscura, preannunciata prepotentemente e in chiave antifrastica dall’allattamento in pubblico di una giovane donna, scandalo nel consesso dell’aristocrazia sterile e autoreferenziale intenta nei riti tribali dell’alta società. Provocante e provocatoria, esposta e seduttiva, l’artista straniera Alves (che di selva è l’anagramma, e ha le fattezze italiane sinuose di Matilda De Angelis) è quel corpo alieno, conturbante e perturbante, altrove socio-economico, carnale e cromatico, intorno alla quale si condensa la pulsione erotica e aggressiva (infine orrorifica, con esiti fra David Lynch e Francis Bacon) rimossa dall’anestesia del privilegio di classe, dei traumi scansati mai elaborati, e dal processi di idealizzazione intorno ai quali è costruita una vita fondata sul principio di omissione.

L’undoing al quale si riferisce il titolo preannuncia del resto non solo la storia di una rovina, di un disfacimento, come nel Poe della Caduta di casa Usher, ma rimanda contemporaneamente (letteralmente) a un meccanismo psicologico di difesa tipico della nevrosi ossessiva che Freud chiama “annullamento retroattivo” che tende a far di tutto perché pensieri, atti, gesti passati intollerabili e inconciliabili con l’immagine di sé non siano mai avvenuti. Questo “rendere non accaduto” – quello che sul computer si può facilmente ottenere con un tasto, cancellando l’ultima azione – nella vita si rivela però una mossa riparativo-restaurativa totalmente illusoria, un gesto magico (richiesto spesso ad analisti, avvocati e coniugi) impossibile e vano, come voler riattaccare un frutto caduto dall’albero. 

una famiglia felice

Bier – regista di The Undoing – è bravissima a costruire, a partire dal romanzo di Jean Hanff Korelitz Una famiglia felice (edito in Italia da Piemme), l’atmosfera destabilizzante di un mistery intricato, e nelle prime due puntate ci precipita completamente nel territorio dell’inquietudine e del disorientamento della sua protagonista, in un mondo in cui nulla è più come prima. Nel corso della detection e con il dipanarsi del legal thriller, distribuendo con abbondanza ribaltamenti di prospettiva e colpi di scena, scene madri e scene padri, rivelazioni più o meno attese e moltiplicazione dei sospetti, perde tuttavia un po’ la presa, e a tratti il senso del verosimile. Ma, attraverso personaggi centrati e graffianti (su tutti il padre patriarca, amante dell’arte e degli scacchi, protettivo e ferino, interpretato da Donald Sutherlan e l’avvocatessa di colore, cinica, diretta e priva di ironia impersonata da Noma Dumezweni) riesce comunque a tenerci agganciati fino alla sesta.

Se scioglie l’enigma formale (chi è l’assassino) con una certa convenzione, quello che mi sembra interessarle la regista, rimane impossibile da dipanare per intero: lo sguardo acuto e ambiguo di quella bambina dei titoli di testa, lo sguardo di Grace, disfatto dal pianto.

 

L’AUTORE: qui tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

 

nota: l’immagine di copertina è stata tratta dalla pagina Facebook ufficiale della serie The Undoing

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