“Narrare le periferie (non solo quelle fisiche) è forse il mio karma, perché di quei limes mi sento ancora parte e mi appassiona la vita che pulsa sui bordi e si riflette su chi li abita…”. Su ilLibraio.it la riflessione di Erika Anna Savio, all’esordio con “I ragazzi sognano in technicolor”, romanzo che narra di solitudine, disagio sociale, sogni e microcriminalità
Sono nata negli anni Settanta in periferia; il muro della fabbrica staccava Mirafiori Sud dal centro e per i ragazzi del quartiere la città era lontana: quaranta minuti di viaggio sul 63/.
Torino per noi finiva dallo slargo della Fiat, di lì iniziava la nebbia fitta e le luci del corso si facevano più rade e fioche, fino a scomparire del tutto dove la campagna si riprendeva il suo spazio, stretta tra il torrente, i prati e il campo nomadi. Quando sono andata al liceo, agli altri spiegavo di abitare “oltre le Colonne d’Ercole”. Hic sunt leones, ribadivo con una certa presunzione, Voi non conoscete i nostri posti.
E ancora oggi, tutti noi cresciuti laggiù continuiamo ad avere un orgoglioso amore per la nostra periferia; ce la portiamo tatuata addosso con le sue strade e i suoi eroi: essere uno di zona è qualcosa che ti affratella, un’identità certa che ti rende ciò che sei, anche se sono vent’anni che non ci abiti più. Eppure io ero una mosca bianca, un po’ come la Karen de I ragazzi sognano in Technicolor: la mia famiglia proveniva da un contesto differente rispetto alla maggior parte degli abitanti e, proprio per questo, la mia necessità di integrarmi ed essere uguale agli altri è stata così urgente e forte.
Ho avuto la fortuna di avere dei genitori sufficientemente aperti da permettermi di giocare per strada fino a sera inoltrata e grazie a ciò sono cresciuta libera dai pregiudizi, non mi sono mai sentita sola nonostante fossi figlia unica e, inoltre, ho sviluppato un senso dell’osservazione e dell’ascolto che mi ha aiutato a credere nei miei sogni e ad avere il coraggio di seguirli.
Narrare le periferie (non solo quelle fisiche) è forse il mio karma, perché di quei limes mi sento ancora parte e mi appassiona la vita che pulsa sui bordi e si riflette su chi li abita. Dopo alcuni libri-approfondimento scritti con un urbanista, ho deciso di dare voce ai personaggi che da anni affollavano la mia mente: così è nato I ragazzi sognano in Technicolor, di cui molto arriva dalle esperienze di quegli anni, ovviamente filtrate e lavorate dalla fantasia – un po’ come fa il nostro cervello con le immagini dei sogni al risveglio.
La magra e timida Lisa è una delle tante bambine con cui ho giocato a palla nei cortili, con cui andavo a “contare le siringhe” nel viottolo che si addentrava tra gli orti abusivi; Alex l’ho visto scorrazzare su una vecchia bmx insieme agli altri ragazzi sudati verso un campo da calcio spelacchiato. In primavera il quartiere era invaso dall’odore dell’erba tagliata e all’inizio dell’estate dal profumo dolciastro dei tigli. Ci si ritrovava per strada, a qualsiasi ora, finché le mamme non chiamavano dalle finestre. Intorno a noi svettavano i muri della Grande Fabbrica, le ciminiere, i tralicci neri contro i tramonti rossi e si sognavano avventure in altrove straordinari, ma prima di tutto era l’America, che noi conoscevamo dai film e dai telefilm: Saranno Famosi, I Guerrieri della Notte, Ritorno al Futuro e i classici Disney dalla patina sgargiante che i più fortunati potevano registrare sulle videocassette. Spesso, quando film, serie e “cartoni” arrivavano sui nostri schermi erano già discretamente vecchi ma noi non lo sapevamo perché non c’erano internet e i social: non si poteva vivere la contemporaneità con il resto del mondo; il nichilismo e la violenza erano caserecci, gli esempi che ci arrivavano al massimo distavano due fermate di autobus.
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Era così la periferia di Alex e Lisa, estranea al centro città, fatta di casermoni prefabbricati, cascine in rovina, strade polverose, droga e abbandono. Una terra di nessuno dove le istituzioni erano assenti o peggio, nemiche: luoghi in cui i ragazzi, spesso “trapiantati” dal Sud, crescevano da soli, per strada, in situazioni di marginalità, con famiglie spesso disagiate che non ce la facevano per la povertà materiale ma, soprattutto, per quella culturale, dei valori.
Quando, dopo un viaggio sulla vecchia Cinquecento della mamma, Lisa arriva alle Serre (nome inventato, non cercatelo sulla toponomastica di Torino), si trova improvvisamente ribaltata in quella situazione ostile: i ragazzi sono aggressivi, usano un linguaggio che non conosce e i luoghi del quartiere sono soffocanti come muri di una prigione. Il mare è lontano e lei, ancora bambina, ha perso tutti i suoi punti di riferimento: la famiglia, gli amici, la scuola. Quel viaggio sulla Savona-Torino di sola andata ha rotto definitivamente qualcosa che vacillava da tempo anche se lei credeva potesse durare comunque.
Lisa ce la metterà tutta, ci vuole coraggio e determinazione per sopravvivere nell’ex quartiere E17, ma l’arrivo dell’amante che la madre si porta a casa complica le cose: Terry Fortuna è il classico delinquente di zona, non ha morale né umanità eppure la madre ne è soggiogata, al punto di sacrificare i figli. In questo ambiente di assenza e violenza, dove tutte le responsabilità sono sulle sue spalle, a salvarla saranno i libri e l’amicizia; la prima sarà Nunzia, da cui impara la resilienza, poi coloro che diventeranno insostituibili punti di riferimento: l’inarrivabile Karen, Veronica la sempliciotta e, infine, il più importante di tutti, Alex, detto Cavallopazzo (per le sue intemperanze e la famiglia disastrata) che le insegnerà, sebbene in modo del tutto inconsapevole, il valore di ciò che si può sognare, a partire da quel che hai.
Intorno a Lisa si apre un universo di esperienze da scoprire, ma le dinamiche del quartiere, con i suoi mali endemici, possono fagocitare tutto, lacerando sogni e speranze.
Oggi forse le periferie non sono più quelle di Lisa e Alex, piene di bambini che giocano per strada – e anche di microcriminalità ed emarginazione (chi ha visto il film di Gianni Serra, La ragazza di Via Millelire sa di cosa parlo); il disagio persiste, ma è legato a un’emarginazione diversa: come dice chi ci è rimasto: “Se da qui non te ne sei andato o sei morto, allora sei diventato vecchio”. Purtroppo ora, tra i giardini rigogliosi e le case ridipinte si respira solo rassegnazione.
Lisa e Alex sapevano sognare anche nei momenti più disperati e, pur duramente, sono cresciuti e hanno imparato. Non esistevano schermi dietro cui rintanarsi, al massimo c’erano i posti segreti, come il Rifugio, dove Alex va “ogni volta che si rompe delle robe che succedono là fuori”.
Eppure, nonostante gli smartphone, l’adolescenza rimane sempre uguale, un periodo difficile, fatto di grandi strazi e grandi speranze, ed è per questo che molti adolescenti hanno rubato questo romanzo ai loro genitori: soverchiati dagli stimoli, stanno perdendo la capacità di selezionare cosa davvero conta, ciò che rende più umana la realtà.
È necessario insegnar loro di nuovo a immaginare: If you can dream it, you can do it, Se puoi sognarlo, puoi farlo. Che l’abbia detto davvero Walt Disney o qualcun altro non fa differenza, ciò che importa è ricordare che i sogni possono cambiare la vita.
Molto meglio di un filtro di Instagram.
L’AUTRICE E IL LIBRO – Quando qualcosa si rompe, può mai tornare come prima? Questa è la domanda che si pone Lisa e, con l’ostinata furia di vivere dell’adolescenza, cerca di convincersi che sì, tutto può tornare come prima. Torino, fine anni ottanta. Lisa è una ragazza timida che, in seguito alla separazione dei genitori, si è trasferita con la madre e il fratellino da un paese sul mare a una periferia urbana degradata. Oltre a dover ricominciare una vita da zero, deve fare i conti con una madre che le delega la responsabilità del fratello e la costringe alla convivenza con un nuovo amante violento. Catapultata così, bruscamente e senza nessuna sponda, cerca d’inserirsi nel nuovo ambiente facendo suoi modi e linguaggi dei coetanei, fino a stringere amicizia con alcuni di loro, come Alex “Cavallo Pazzo”. Sono Lisa e Alex il perno della storia, e sono loro che insieme cercheranno una via di fuga e salvezza.
I ragazzi sognano in technicolor, romanzo di Erika Anna Savio pubblicato da astoria, narra di cambiamenti affrontati in solitudine, disagio sociale, microcriminalità, scoperta di una sessualità precoce, ma anche di sogni, speranze, amicizia e amore, quell’instancabile ricerca di legami che dà un senso alla vita.
L’autrice, all’esordio, insegna Lettere alle scuole medie ed nata nel 1976 a Torino; è cresciuta a Mirafiori Sud, all’ombra delle ciminiere della Fiat. Laureata in Lettere Moderne, giornalista dal 2013, ha continuato a interessarsi della vita nelle periferie attraverso i due libri di indagine sociale e testimonianza territoriale Mirafiori Sud, vita e storie oltre la fabbrica e Mirafiori Nord, la fabbrica del cambiamento (Graphot Editore, 2014 e 2017), ideati e scritti insieme all’urbanista Federico Guiati.