Da un lato Momogol, che arriva da un villaggio del Senegal con il sogno di giocare a calcio in Europa, ma è vittima di una truffa. Dall’altro Gioia e Leo, due trentenni idealisti, che vivono in un quartiere periferico di Torino. In “L’unico finale possibile” Paola Cereda dà alla finzione una delle possibilità più grandi: quella di rendere una vita minuscola il centro del mondo
Nel romanzo di Paola Cereda L’unico finale possibile (Bollati Boringhieri), il quartiere periferico di Torino di Pietra Alta confina con una delle periferie del mondo contemporaneo: un villaggio nel Senegal dove i bambini diventano adulti presto e i sogni si vestono con le maglie di calcio di atleti che giocano in Europa.
Sembra una connessione improbabile, lontanissima, ma si tratta di una vicinanza emotiva più che geografica, che mette in relazione un quartiere dove già vivono geografie diverse alla vita di Momogol, che arriva dal Senegal per giocare a calcio in Europa, con i documenti e la promessa del benessere, e all’aeroporto di Malpensa scopre il suo reale destino, finendo per viaggiare su un autobus in direzione Torino da irregolare.
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Cereda scrive: “Il venerdì in cui comincia questa storia, mancano pochi minuti alla fine del turno. Mentre pulisco la macchina dei popcorn, già penso di gonfiare la ruota anteriore prima di rimettermi in sella e, quando attacco a rabboccare le liquirizie, Gioia e il ragazzino che non conosco superano il tornello dell’ingresso e puntano dritti verso lo Sweet Corner […]”.
Momogol bussa alla porta di Casa Aperta, un centro accoglienza in cui lavora Gioia che con Leo, il narratore della storia, condivide un appartamento a Pietra Alta, un presente senza figli e nessun ottimismo per il futuro, e che decide di accogliere il ragazzo in casa, senza dirlo prima, senza un piano, ma solo con una certezza presente: fare qualcosa.
Gioia e Leo sono due trentenni idealisti con cui la vita è stata parca ma non riottosa. Leo vive qualche rimpianto, Gioia vorrebbe dei figli; Leo cerca una via d’uscita, Gioia trova soluzioni tutti i giorni; Leo dice di Gioia che “è una creatura di un altro mondo che prende ciò che trova e regala ciò che ha, in un circuito informale dove le cose sono soltanto cose e devono fare il proprio mestiere”; entrambi credono fortemente solo in una possibilità: quella individuale di fare qualcosa nel mondo, “servire a qualcosa e a qualcuno”, di lasciare una traccia rilevante nelle vite piccole che incontrano ogni giorno, a Casa Aperta l’una e agli allenamenti del River l’altro.
Gioia e Leo sono scritti come due trentenni di oggi che hanno pochissime certezze sul mondo ma sono di quella parte di esseri umani che pensa di poterlo rendere un posto migliore. O almeno impegnarsi a farlo e anche nel modo in cui sono tratteggiati – portatori di sarcasmo, di ironia amara, ma allo stesso tempo anche di romantico entusiasmo – Paola Cereda ci dice che sono i nostri protagonisti ideali e ci convince subito di questo, senza dubbi: non siamo né spaesati né sorpresi nel pensare che Gioia e Leo sono quelli che fanno la cosa giusta e che ci regaleranno il miglior finale possibile.
La storia inizia con loro due che si interrogano sul futuro, nella piccola casa che abitano ma non ci sembrano due persone infelici. Umane sì, a tratti dubbiose, ma non infelici in senso stretto e quando Gioia decide del destino torinese di Momogol la cosa ci appare l’unica soluzione possibile. Ci fidiamo di Gioia e di Leo; è di Momogol che non sappiamo cosa pensare. Come ha fatto a fidarsi delle persone sbagliate? Era talmente chiaro che lo fossero. Come fa a non interpretare l’eroe perfetto dopo tutto quello che Gioia e Leo si impegnano a fare?
Momogol, invece, vive proiettato al futuro. Arriva da un mondo in cui “il campo è la piazza del villaggio, il luogo attorno al quale gli anziani si radunano per guardare la partita e parlare di semina, di siccità o del litigio tra due famiglie che dovrà essere discusso l’indomani sotto il grande albero”. Cede a una truffa per inseguire il sogno di giocare in Europa, come Sadio Manè, di indossare i suoi scarpini, di tornare al villaggio con il successo nelle tasche e cucito addosso, di ridare a sua madre la fortuna che gli ha concesso, e per fare questo si ritrova perso in uno Stato che per lui non significa niente, in una città in cui non trova nulla di ciò che si aspettava e con il desiderio del Liverpool che non si assopisce. “Momo fa finta di nulla. Prende posto e appoggia la testa al finestrino nella speranza di essere dimenticato: nessuno farà caso a lui se si fa piccolo piccolo, più piccolo, ancora di più, se si mette in un angolo e finge di dormire […]”.
Paola Cereda riesce in una prova niente affatto facile: costringerci a parteggiare spudoratamente per Gioia e Leo perché ci racconta un Momogol a volte ingiusto e imperfetto e noi come loro due vorremmo che il ragazzo facesse esattamente ciò che crediamo sia giusto, che riuscisse nell’impresa di essere una brava persona, che non si cacciasse mai nei guai e imparasse bene l’italiano. In una parola: parteggiamo per l’integrazione piena. Ma l’integrazione non è un processo sommatoria, anzi. Lavora invece per sottrazione e l’ammanco è ciò che muove, latente e vivo, tutto il senso di questo romanzo.
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Le vite di Leo, Gioia e Momogol sono raccontate dall’autrice con leggerezza stilistica e con una certa profondità di sguardo, capace di tratteggiare le sfumature delle reciproche relazioni e dopo che per tutta la partita abbiamo fatto il tifo per le due ali Gioia e Leo, aspettiamo da Momo solo il gol. A quel punto deve farlo. A quel punto non ha più scuse.
Il racconto fila piacevole, con capitoli brevi che si susseguono in modo asciutto e preciso, con un lessico mai esausto. La storia procede dipanandosi da un presente in cui Gioia e Leo ci vengono presentati nelle loro vite routinarie e poi riparte molte volte, da punti diversi per raccontare le ragioni di Momo, quelle di Leo, quelle di Leo e Gioia come coppia e Leo, che ha il compito di raccontare, diventa sempre più presente; la sua voce è prima più remissiva, poi si ingigantisce, spronata da Gioia e dal rimpianto e cerca di raccontare le cose per come sono successe, dall’inizio al triplice fischio, ma qualcosa a un certo punto si perde.

Paola Cereda nella foto di Nicola Nurra
Paola Cereda stessa, in un certo senso, si perde il finale e quindi l’unico finale possibile, quello del titolo certo, ma anche quello del romanzo, combaciano. Non è solo una naturale chiusura quella che l’autrice sceglie, ma anche quella più vera, e proprio quando la finzione della storia è all’apice entra invece la vita reale, si abbandonano i canoni stretti del romanzo e si fa quel che si può, quello che Gioia, Leo e Momogol della realtà chiedono. Questa inversione, che si realizza verso la fine del libro, non lascia niente di intentato e in chi legge nessun tipo di spaesamento. Ci si arriva con la giusta misura.
Oltre a Gioia, Leo e Momogol, L’unico finale possibile ha anche due cori di personaggi: uno vive in Italia, l’altro in Senegal. A Torino, ci sono quelli che abitano il condominio, amici o nemici, il quartiere, il centro accoglienza e la squadra di calcio del River. Nessuno di loro ha una parte fondamentale nello sviluppo della storia ma tutti concorrono a fare da premessa necessaria alle scelte di Gioia e Leo. È anche grazie a queste persone che loro due sono come sono e prendono certe decisioni: tacciono e si ribellano, a seconda dei momenti, ma mai senza una sorta di villaggio che li guarda.
In Senegal, invece, c’è il villaggio vero, quello in cui ogni ragazzino veste la maglia di un campione diverso, in cui la famiglia è fatta di donne che lavorano senza speranza e in cui si insinua il trafficante di turno che promette la gloria in cambio di soldi. Al villaggio di Momogol la fortuna si realizza in pochi attimi: la scelta di una madre di indebitarsi o meno per pagare il futuro del figlio promesso al calcio internazionale, la capacità o meno di arrivare al provino con il selezionatore fasullo senza nemmeno un secondo di ritardo. Non esistono seconde occasioni, non ci sono ripensamenti né rimpianti.
Scrive Cereda: “Vorrei dirgli che niente è perduto e che se davvero lo vuole, può tornare al villaggio anche domani e ricominciare, ricominciare subito, in questo istante perché nella vita contano, eccome, i retropassaggi. I retropassaggi servono a riprendere fiato e ad alleggerire la pressione degli avversari, ma non valgono per tutte le vite. Non è vero che siamo uguali”.
L’unico finale possibile è un romanzo che affronta un tema poco discusso, mal celato forse, e lo fa con intelligenza e dando alla finzione una delle possibilità più grandi: quella di rendere una vita minuscola il centro del mondo, girarci attorno e costruire un discorso, un immaginario.
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