Nella nuova raccolta, “Un luogo soleggiato per gente ombrosa”, le creature letterarie nate dalla fantasia di Mariana Enriquez, voce di spicco della narrativa horror e gotica internazionale, tornano a visitarci, per chiederci conto di qualcosa…
“Ormai è il momento di tornare anche nei posti che fanno male”. Il senso della nuova raccolta di racconti di Mariana Enriquez, Un luogo soleggiato per gente ombrosa (Marsilio, traduzione di Fabio Cremonesi), è tutto qui. Arriva a pagina 110, in mezzo al racconto da cui la raccolta prende il titolo, e colpisce come la voce di un fantasma che bussa alla tua porta nel cuore della notte.
In una recente intervista a Il manifesto, Enriquez tiene a sottolineare che la forma racconto è la formula della letteratura del Rio de La Plata. Dice che legge da una vita Borges, Cortázar, Hernández, Bioy Casares, Ocampo, e in qualche modo li ha interiorizzati, e che il racconto differisce dal romanzo, perché parte da un’immagine e non da un’idea. E tutto muove da lì. E le immagini da cui muove Enriquez sono le stesse che ci ha già fatto conoscere nelle sue raccolte precedenti (Le cose che abbiamo perso nel fuoco e I pericoli di fumare a letto), e che l’hanno resa oggi la voce di spicco della narrativa horror e gotica internazionale.
Anche qui ci sono fantasmi, corpi macilenti, sudici, deturpati e fragili. Ma non inermi.
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Al di là della fascinazione per il mistero, il macabro, il fantastico, quello che suggerisce Enriquez è che queste presenze che abitano così prepotentemente la sua fantasia, e quella dei suoi lettori, tornino forse a disturbarci per chiedere conto al mondo di qualcosa. Ma che cos’è questo qualcosa?
Una donna perde gradualmente i connotati del volto. Inizialmente pensa a una malattia virale, che le causa una emiparesi. Indossa una maschera per non spaventare la figlia, ancora bambina. Poi la situazione peggiora, il gonfiore aumenta e iniziano a sparire occhi, naso e bocca. Grazie al fratello scopre che la madre, stuprata da un uomo senza volto, aveva subito la stessa sorte.
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Un’altra, medico ormai in pensione, e badante della madre morta che torna a visitarla di quando in quando, diventa punto di riferimento per i fantasmi del quartiere, morti in circostanze violente. Cerca di ammansirli trovando addirittura a tratti confortante la loro compagnia.
Una giornalista si rivolge a una medium per cercare di evocare lo spirito di una ragazza uccisa e lasciata marcire dentro una cisterna all’ultimo piano di un hotel.
Poi ci sono le donne uccello. Avete fatto caso che in molte mitologie le donne vengono punite per essere venute meno al loro ruolo di cura, oppure perché hanno scelto di divertirsi troppo in solitudine?
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“Il nittibio, noto anche come uccello fantasma, vive di notte e quando canta sembra piangere. Si dice che fosse una principessa guaraní innamorata del Sole, abbandonata quando lui è asceso al cielo; da allora tutte le notti invoca il suo uomo. La sua pena è infinita perché il sole continua a sorgere ogni giorno, sempre. La calandra era una bella ragazza che, quando rifiutò un guerriero insistente che non le piaceva, ricevette il castigo di non essere più né donna né bella, e Tupá la trasformò in uccello per la sua superbia e alterigia. L’uccellino che oggi chiamiamo cuculo striato era un’altra ragazza giovane, appena sposata, che andò a ballare quando suo marito era malato, e si divertì e se la spassò tanto che non si accorse che le ore passavano e quando tornò a casa il marito era morto. La sua punizione: passa le giornate chiamando il marito mentre cammina in montagna con le sue zampette corte. Un’altra ragazza che andava matta per la musica abbandonò la sua vecchia madre e anche l’anziana morì: si trasformò in un passero dal collare rossiccio, un altro uccellino che non fa che lamentarsi. Potrei continuare, ma penso di aver reso l’idea”.
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Addentrandosi nella lettura si possono avere risposte parziali alla domanda di prima, cos’è questo qualcosa, di cui i reietti di Mariana Enriquez chiedono conto? È la nostra capacità di dimenticare. I vivi dimenticano spesso. Traumi, pandemie, il peso delle dittature (Enriquez è nata sotto una dittatura), dimenticano i loro morti, anche quelli che hanno subito una morte violenta, persino quelli che non hanno trovato sepoltura, perché i loro corpi sono stati fatti sparire, ingoiati dal mare o torturati in una cella, buttati dentro fosse comuni.
E allora i morti tornano, a chiederci conto di una colpa collettiva.
E spesso, sembra suggerirci l’autrice, il peso di questa colpa è sostenuto dalle donne. Medium, loro sì, di questa estroflessione degli abissi dell’io, che in letteratura possiamo far risalire a E.T.A. Hoffmann e che ha compiuto una lunga peregrinazione narrativa per presentarsi ora in Enriquez in modo compiuto, con la fine della dissezione di pulsioni e ossessioni individuali e l’inizio dell’analisi del subconscio collettivo. Bentornata letteratura politica.
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