“L’attimo prima”, romanzo d’esordio del giornalista Francesco Musolino, è una storia di formazione ambientata tra i colori e i sapori della Sicilia – Su ilLibraio.it un estratto

L’attimo prima, edito da Rizzoli, segna il debutto narrativo di Francesco Musolino. Classe ’81, il giornalista di Messina ambienta il romanzo nella sua città: il punto di vista è quello del venticinquenne Lorenzo, che passa le giornate nel ristorante dei genitori. Il suo sogno di diventare chef svanisce ben presto, però. La sua vita, infatti, cambia all’improvviso…

Immaturo, sospeso e impantanato, Lorenzo inizia a lavorare in un’agenzia di viaggi: “Nonostante il web sia zeppo di siti e app che ci informano in tempo reale sulle offerte last minute, c’è ancora qualcuno che viene qui, richiede il posto corridoio o finestrino, immaginando itinerari, sindacando sul numero di stelle e sulla distanza dal centro dell’albergo prescelto. Evidentemente esiste ancora un lato umano”.

Ma cosa succede quando i sogni svaniscono l’attimo prima di diventare realtà? Lorenzo cerca di rimetterne insieme i pezzi, ed Elena, la sorella, prova a insegnargli che il timore di dimenticare chi si è amato non dev’essere una scusa per rinunciare ai propri sogni.

Musolino, giornalista culturale, creatore del progetto di lettura noprofit @Stoleggendo, indaga il percorso verso l’età adulta, in un romanzo di formazione ambientato tra i colori e i sapori della Sicilia.

francesco Musolino

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

Sono cresciuto sotto il tavolo di legno della cucina nel ristorante di Leandro e Sara, i miei genitori. Si chiamava “La Bella Tavola”. Lo aprirono alla fine degli anni Settanta nel centro storico di Messina. A piedi saranno un paio di minuti da qui. In piena contestazione giovanile, appena ventenni, presero tre decisioni d’istinto: sposarsi, varcare lo Stretto di Messina e aprire quel locale. Un triplo salto nel vuoto. Scelsero di sgobbare dodici, quattordici ore al giorno per costruirsi un futuro. Per iniziare una nuova vita insieme. Entusiasti quanto inesperti, entrambi d’origini calabresi. Sposarsi e spingersi a sud, in Sicilia, attraversando quel braccio di mare, sfuggendo sia a Scilla sia a Cariddi, per loro era un passaggio obbligato. Avevano trovato la giusta distanza. I sogni dai rilievi indefiniti già prendevano i contorni della realtà.

Il ristorante era piccolo. L’ambiente principale era un’ampia stanza con cinque tavoli di legno quadrati presi da un rigattiere. Una sera, stava per chiudere bottega, si presentarono loro due. Lui alto e magro come una pertica, con i capelli biondi un po’ ricci e quel sorriso sornione. Lei con gli occhi grandi e i capelli lisci e lunghi fin sopra il sedere. Avevano la faccia buona, non ingenua. Gli fece un prezzo onesto. Non solo i tavoli ma anche robuste sedie in paglia, un servizio di piatti con posate annesse. Era bastata una stretta di mano, senza bisogno di tirare fuori banconote. La sera dopo consegnò tutto e ci mise dentro anche una bottiglia di rosso di casa. Cinque tavoli, venti coperti al massimo. Abbastanza perché il loro sogno potesse cominciare.

Adiacente alla sala c’era la cucina, il regno assoluto di mia madre, separata da una porta con due battenti e l’oblò. Accanto all’ingresso un armadio a muro di noce per appendere i cappotti e farli scomparire alla vista e, infine, un piccolo tavolino con sgabello. In teoria doveva essere la postazione di mio padre che, invece, preferiva stare in piedi in mezzo alla sala. Toccava a lui fare gli onori di casa. Cortese e curioso, si interessava a ogni cliente, attento a non essere invadente. Come avrebbe fatto uno zio di campagna. Estate o inverno che fosse, era sempre in camicia e giacca, sfoggiando il suo sorriso obliquo e una cadenza che ricordava vagamente Alberto Sordi. Eppure, lui a Roma c’era stato solo da piccolo a casa di zii lontani e dispersi nella memoria, di quelli che riemergono negli album, saltabeccando in qualche aneddoto curioso che ritorna in mente all’improvviso e poi torna giù, in fondo. Aveva trascorso quasi un anno lontano da scuola, compresa un’estate avventurosa a Fregene e la domenica andavano sempre a messa in centro, alla basilica di San Lorenzo in Lucina. Lorenzo. Arriva da lì il mio nome? E quel preciso timbro di voce di mio padre – un poco rauco e con un’ironia di fondo, una risacca lontana – si era formato in quei giorni fra supplì caldi, l’odore di cuoio dei sedili della Fiat 1100 dello zio e i castelli di sabbia? Chissà.

Una cosa è certa. La ricetta della vignarola l’ha raccontata a sua moglie che poi ovviamente c’ha messo del suo. Carciofi, cipolle, fave e piselli. Tutto dev’essere fresco altrimenti il miracolo non accade. Senza dimenticare il guanciale. E si può fare solo fra aprile e maggio. L’essenza suprema dell’effimero. Ma accanto a questa prelibatezza c’erano cose strane assai. La sua passione per i panini salame e mortadella, un bicchiere di latte freddo con una spruzzata di Coca-Cola e la devozione per il lardo. Da dove arrivano i nostri gusti, le nostre passioni, le nostre idiosincrasie persino? Si formano o giungono a noi passando attraverso il tempo, i cromosomi, le abitudini? Difficile a dirsi. E del resto quando chiedevi qualcosa a mio padre, decideva lui come doveva andare a finire. Sempre. Quante volte gli avrò chiesto il perché di quell’anno passato a Roma o perché avessero scelto di chiamarmi così? Lui tirava fuori uno sguardo di traverso e sorrideva a filo. E non c’era niente da capire. Se non voleva raccontarti qualcosa, se gli girava storto o se intendeva prendersi gioco di te, finiva tutto lì. Dei miei nonni ricordo poco o nulla invece, solo che a furia di rinunce avevano fatto studiare i figli, li avevano visti crescere, lasciare casa e prendere la propria strada. Ma quando Leandro e Sara abbandonarono le rispettive case, scelsero di diventare subito adulti, senza lacunosi stati intermedi, vie di mezzo o possibili ripensamenti. Fu una sorta di promozione sul campo che ribadivano in ogni piccolo gesto di intesa. Sin dal primo momento loro due formarono un cerchio perfetto. Ancor prima che aprissero bocca, bastava guardarli per rendersene conto.

(Continua in libreria…)

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