Uscito nel 1953, “La città senza cielo” dello scrittore francese Jean Malaquais (1908-1998) è il racconto distopico di una metropoli onnipresente e mostruosa. Pierre Javelin, piazzista di cosmetici dalla vita regolare, perde improvvisamente tutto: la casa, sua moglie, persino la propria identità. E per lui inizia un incubo che lo porta a scoprire dentro di sé la ribellione a un potere totalizzante…

La Città cresce di continuo e si prende tutto lo spazio, in orizzontale e in verticale. La Città racchiude interamente la vita degli abitanti e dissemina in ogni suo angolo uffici e impiegati, metronomi asettici e impersonali per battere il ritmo di un funzionamento ordinato.

Pierre Javelin è piazzista di cosmetici alle dipendenze dell’Istituto Nazionale per la Bellezza e l’Estetica. Una vita regolare, scandita dal tempo necessario a passare da una porta all’altra dei grandi palazzi in cui deve vendere la sua merce. Ama teneramente sua moglie Catherine, che sogna di comprare ai grandi magazzini quella giacca con un collo che non ha eguali. Un giorno arriva un aumento, non richiesto e concesso in modo quasi minaccioso. Pierre Javelin sbaglia la firma in calce ai documenti necessari, e di colpo tutto comincia a sgretolarsi: non c’è più la sua casa, non c’è più sua moglie, lui stesso diventa un proscritto, privato della propria identità.

Respinto, perseguitato, distrutto, Pierre si ritrova in un incubo di cui piano piano comincia però ad afferrare la logica. E arriva dritto al cuore della Città, cogliendone il suo senso mostruoso di divoratrice di anime e di conseguenza le ragioni profonde della propria ribellione inconsapevole.

Quando nel 1953 Jean Malaquais pubblicò La città senza cielo, il libro ebbe un’accoglienza tiepida. Norman Mailer, in una prefazione scritta vent’anni dopo che accompagna la nuova edizione italiana di Cliquot con la traduzione di Elisabetta Garieri, sostiene che il libro era semplicemente troppo in anticipo sui tempi, la descrizione di un mondo che sarebbe comparso molto più avanti. Questo giudizio è probabilmente ancora più vero oggi. Se la rappresentazione della burocrazia come una macchina folle e disumana – uno dei fili conduttori del romanzo – è qualcosa a cui siamo quasi fin troppo abituati, un altro aspetto di questa distopia suona al lettore contemporaneo ancora più familiare, e per questo inquietante: la sensazione, anzi, la certezza dell’onnipresenza della Città, antagonista totale di ogni speranza e gesto dell’antieroe Pierre.

città senza cielo malaquais

Può sembrare curioso, ma della Città nel romanzo si parla molto e la si vede poco. Non se ne trovano tante descrizioni, perché essa occupa precisamente tutto il campo del visibile. Come qualcosa di troppo vicino agli occhi, un luogo inafferrabile proprio perché è quello in cui ci troviamo sempre, al quale è impossibile sfuggire. Vive di vita propria, e difatti muta forma a suo piacimento: ogni casa può diventare la stanza di un interrogatorio, in ogni luogo si cela un telefono che è strumento di minaccia e di controllo (e quanto suona angosciosa, vista con gli occhi di oggi, la presenza dovunque di dispositivi che garantiscono la tracciabilità…).

Strada facendo la ricerca di salvezza per Pierre Javelin si trasformerà in una lotta fiera e disperata.

Intorno a lui ruotano tre personaggi femminili: Catherine, la moglie perduta, forse rapita, l’amore di una vita ma anche il simbolo della remissione al dominio della Città. Dominique, un’altra proscritta terrorizzata dal proprio lento svanire nel nulla. E Therese, cameriera umile e apparentemente di poco conto, che però è forse l’unica a condividere il fuoco di una resistenza…

E gli altri abitanti? Esistono, certo, ma solo nella misura in cui hanno accettato di essere semplici emanazioni di un potere invisibile e tangibilissimo. “Le comparse sono mille, mentre la Città è una e le contiene tutte”. Come Bomba e Kouka, la coppia che ha preso il posto di Pierre e Catherine nel loro appartamento. Figure grottesche, parodia dell’esistenza regolare che Javelin sembra aver irrimediabilmente perduto. Oppure il dottor Babitch, laido funzionario di medio livello recentemente promosso, che ha preso in carico la pratica di persecuzione del ribelle Pierre, e agisce con lo zelo spietato e incolore tipico dell’aguzzino legale. Nei frequenti scambi con quest’uomo, il cui ufficio spunta ovunque nei posti più inaspettati, viene enunciata la logica segreta della Città: una dinamica soffocante di appartenenza ed esclusione. La Città esige adesione totale e per i suoi abitanti, completamente sussunti in una crescita sfrenata, può arrivare in ogni momento la privazione completa. Della casa, del lavoro, dei documenti, degli affetti, dell’identità. E senza violenza, o meglio con la violenza serica di un ufficio dove andare “a farsi sconsigliare”, di un capoufficio ambiguo che vede in noi “una brutta cera”, di un interrogatorio dove si chiede all’imputato di esibire lui stesso i propri panni sporchi.

E in fondo, è difficile capire quale sia davvero la colpa di Pierre Javelin. Forse quella firma sbagliata, forse il fatto di scrivere poesie anonime e lasciarle in giro. O più probabilmente qualcosa che covava in lui da sempre, e si rivela nel corso della sua discesa all’inferno restituendogli, però, una viva consapevolezza: “Ovunque ci si rigiri, la Città sta sempre di fronte. Allora io ho capito, signor Babitch, che la fuga è un inganno, una forma sottile di appartenenza. E io ormai mi rifiuto di appartenere. Mi oppongo, certo, ma finalmente con lucidità: non negare la Città, ma negarmi alla Città“.

Un orizzonte che si pretende totale, un modello che abbraccia e stritola presentandosi come unica possibilità di vita: l’opera di Malaquais non invita a ripensare alle oppressioni del passato, ma arriva dal 1953 per farci guardare in modo diverso alle capitali, le metropoli, le smart cities di oggi.

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