Su ilLibraio.it torna la rubrica #LettureIndimenticabili, questa volta dedicata a “Il Conte di Montecristo”, capolavoro di Alexandre Dumas. Andrea Inglese, in libreria con “Parigi è un desiderio”, racconta: “Questo romanzone è riuscito a piazzare le sue grinfie nella mia impressionabile anima di fanciullo e da allora non ne è stato più spodestato…”

La cronologia esatta non la ricordo, non so quale dei due mi sia capitato prima tra le mani, se un David Copperfield illustrato e scorciato, o Il Conte di Montecristo altrettanto illustrato e scorciato. Di sicuro i due volumi dell’edizione Salani del Conte, condensata e tradotta da Mario Sgarbossa, hanno sopravvissuto alle peripezie dell’infanzia, dell’adolescenza e dell’età adulta; non sono stati persi, venduti, buttati, ma giacciono scomodamente, per la loro taglia esagerata, per il loro carattere gemellare, nella libreria della casa dove vivo, in una cittadina alla periferia di Parigi.

Conte di Montecristo Salani

Alexandre Dumas sembrerebbe aver trionfato su Charles Dickens. Il duello è durato per gran parte dell’infanzia. In realtà, Dickens ha preso il sopravvento più tardi, perché dopo i vent’anni di Dickens ne ho letti diversi, e ho appena finito, alla soglia dei quarantanove, di leggere Tempi difficili. Ma Il Conte di Montecristo – letto per la prima volta probabilmente tra gli undici e i dodici anni – non si è mai inabissato nelle zone brumose dei ricordi infantili, dove i personaggi delle prime letture e delle prime visioni finiscono per coabitare in un’indistinta prossimità. Se gli avventurieri asiatici di Salgari emergono abbracciati ai super eroi statunitensi o ai robot giapponesi, Edmondo Dantès e l’abate Faria, come i soli Pinocchio e Geppetto, si sono conquistati una sorta di podio privilegiato ed eccentrico, mantenendo una vividezza di tratti che li rende inconfondibili. Per uno strano miracolo, poi, nonostante esistano infinite versioni a fumetti, televisive e cinematografiche del Conte di Montecristo, nessun volto particolare di attore, nessun salotto ben ricostruito e concreto, sono venuti a sovrapporsi alle mie fantasie di lettore, che sono state alimentate esclusivamente dalle illustrazioni a china ottocentesche integrate all’edizione Salani. Il mio Dantès non è stato contaminato da remake a colori, o interpretazioni sapientemente vintage, si è imposto alla mia immaginazione puerile con la sua freschezza da eroe di romanzo d’appendice, tutto trasudante diciannovesimo secolo ed estremismo romantico.

Rileggendolo oggi mi sono chiesto le ragioni di una tale tremenda efficacia. Questo romanzone è riuscito a piazzare le sue grinfie nella mia impressionabile anima di fanciullo e da allora non ne è stato più spodestato. Lo splendore della vendetta, certo, deve avermi soggiogato, ossia il motore centrale e implacabile dell’intreccio, che alimenta e indirizza anche il fatto apparentemente più secondario, la battuta più casuale. La vendetta esercita un fascino straordinario sulla mente infantile, perché il bambino è costantemente confrontato alla frustrazione, e tanto più sono illimitati i suoi desideri, tanto più sono odiosi i limiti imposti ad essi dalla volontà degli adulti. Ed è proprio la sua condizione di debolezza insormontabile nei confronti del mondo adulto, che lo immerge così facilmente in fantasticherie di vendetta. Ma il fascino della vendetta non si esaurisce con l’età adulta, in quanto la vendetta di Dantès esprime la sete di riscatto di ogni singolo individuo che, nei confronti della concreta organizzazione sociale, si sente spesso come il bambino nei confronti del mondo adulto, un eterno perdente privo di qualsiasi presa sul proprio destino. E stiamo parlando, evidentemente, della vendetta a freddo, quella che funziona ad ampio raggio, con l’intrigo, la manipolazione, il complotto. La vendetta di Dantès trascende la semplice volontà di rivalsa. Non si limita, cioè, a restituire un danno a chi glielo aveva inflitto, ma esalta l’esperienza demoniaca del controllo totale, ponendo il vendicatore nella posizione onnipotente di Dio nei confronti delle sue misere creature. Non è più il sistema sociale, nel suo funzionamento cieco e violento, a stritolare l’individuo grazie alla complicità di tante viltà e cattiverie particolari, ma è la volontà di una sola persona che, magicamente, si trasmette all’intera società, per colpire in essa alcuni personaggi altolocati. Il Conte di Montecristo arriva ad interferire persino con quelli che oggi chiameremmo i mercati finanziari, ossia le potenze più oscure e inafferrabili della nostra società, e con il solo scopo di colpire Danglars, uno dei suoi principali nemici. Questa commistione di fiabesco e di machiavellismo costituisce uno degli ingredienti più ammalianti del romanzo. È come se Dumas avesse concentrato in una sola partita due tipi di giochi antitetici, quello delle storie incantate, dove ciò che conta è la potenza illimitata del sogno e del desiderio, e quello degli intrighi politici, dove ciò che conta è la potenza della volontà, una volta che questa sia guidata, però, dalla conoscenza precisa delle leggi sociali. Stregoneria e strategia politica, incantamento e burocratica minuzia si compenetrano nell’intreccio, conferendo una forza quasi ipnotica ad ogni scena. D’altra parte, ciò che rende straordinario il romanzo di Dumas è la prodigalità creativa con la quale l’ha farcito, non rinunciando a nessuno degli ingredienti dell’arte della narrazione. Che cosa potevo capire e sapere io, a undici anni, dei complotti bonapartisti, dei circoli giacobini, della rivalità di classe tra borghesia e aristocrazia? Eppure mi sorbivo di slancio conversazioni inintelligibili, non potendo dare a certi personaggi spessore e profondità, e sorvolavo paesaggi storici e politici, ricchi di pieghe e sinuosità, come se mi muovessi su di una superficie piatta e monotona, ma alla fine trovavo sempre il bandolo del godimento in qualche dettaglio riguardante i cavalli, i duelli, i neonati sepolti vivi, le quantità di denaro mirabolanti, e quanto più mi si paravano davanti descrizioni e digressioni indigeste, tanto più voracemente le ingoiavo per avanzare nell’intreccio e seguire il piano di rovina che il Conte di Montecristo metteva in opera capitolo dopo capitolo.

  Questo è senz’altro il privilegio delle grandi opere, che si fanno leggere in più tempi e a livelli diversi, lasciando sempre qualcosa di non del tutto consumato, qualcosa di oscuro e intatto, che funge da richiamo, da nuova tentazione. E per questo motivo torno nuovamente al Conte, me lo leggo ora in francese e nell’edizione integrale, e vi scopro angoli inesplorati, ombre inedite, echi mai prima percepiti, anche perché ogni nuova luce gettata su gesti e circostanze della narrazione porta con sé anche nuove negligenze e ombre, e prepara la necessità di una lettura ulteriore. Così vi è sempre un Edmondo Dantès che ho alle spalle, come fosse un amico d’infanzia, fedele a tutti i sogni e le incomprensioni infantili, ma vi è anche un Edmondo Dantès che sempre mi attende nel futuro, per regalarmi una migliore comprensione degli uomini, delle loro vicende storiche e delle loro passioni devastanti per cose spesso assurde e risibili. E davvero il grande romanzo d’appendice non assomiglia granché alla serie televisiva di successo. Quest’ultima finisce per assottigliare la gamma dei suoi effetti ad ogni nuova visione, come se i rilievi della storia venissero progressivamente appianati e resi troppo scorrevoli. Il Conte di Montecristo, invece, non cessa di essere ad ogni nuova lettura più familiare e nel contempo più misterioso, più risaputo e più intrigante. E nello scorrere del tempo, nella distanza storica che ci allontana dall’atmosfera culturale in cui è nato, sono proprio certi aspetti inattuali ad accrescere il suo fascino e a moltiplicare i suoi aromi, come accade a un buon vino dopo un lungo processo d’invecchiamento.

 

LA RUBRICA – Letture impossibili da dimenticare, rivelatrici, appassionanti. Libri che giocano un ruolo importante nelle nostre vite, letti durante l’adolescenza, o da adulti. Romanzi, saggi, raccolte di poesie, classici, anche testi poco conosciuti, in cui ci si è imbattuti a un certo punto dell’esistenza, magari per caso. Letture che, perché no, ci hanno fatto scoprire un’autrice o un autore, di ieri o di oggi.
Ispirandoci a una rubrica estiva del Guardian, A book that changed me, rifacendosi anche al volume curato da Romano Montroni per Longanesi, I libri ti cambiano la vita. Cento scrittori raccontano cento capolavori, abbiamo pensato di proporre a scrittori, saggisti, editori, editor, traduttori, librai, bibliotecari, critici letterari, ma anche a personaggi della cultura, della scienza, dello spettacolo, dell’arte, dell’economia, della scuola, di raccontare un libro a cui sono particolarmente legati. Un’occasione per condividere con altri lettori un momento speciale.

Parigi è un desiderio di Andrea Inglese
IL LIBRO E L’AUTORE DELL’INTERVENTO – Fin da quando era molto giovane, Andy ha sognato Parigi: il luogo in cui le «abitudini», tiranne implacabili nella sua Milano, possono finalmente essere sconfitte; il luogo in cui la letteratura è qualcosa di concreto, che si incontra nei salotti o fra i tavolini di un bar; e il luogo, certamente, dove vivono le parigine. Ma i miti giovanili sono per loro natura destinati a crollare, e forse è proprio nel conseguente spaesamento che si può arrivare a una specie di «maturità», all’accettazione dello spaesamento stesso, alla costruzione di rapporti reali, quindi incerti, coi luoghi, con le persone. Il narratore di Parigi è un desiderio, romanzo di Andrea Inglese in libreria per Ponte alle Grazie, si mette impietosamente in scena in prima persona, e il suo costante, inquieto rimuginare su sé stesso, sulla sua relazione con una città, sulle storie d’amore che nascono, finiscono o semplicemente si immaginano, queste riflessioni al tempo stesso lucidissime e stralunate arrivano a toccare le corde più profonde dell’esistenza, quelle legate agli affetti fondamentali e alle nostre più intime aspirazioni alla felicità.

L’APPUNTAMENTO – Andrea Inglese presenta il suo romanzo a Napoli giovedì 14 luglio alle ore 19 presso il Caffè Letterario Il tempo del vino e delle rose, in Piazza Dante 44/45. Qui i dettagli.