La riservata Donatella Di Pietrantonio (“ma all’uscita di ogni romanzo giro volentieri per le presentazioni…”) è tra le sorprese dell’anno con il successo de “L’arminuta”. La scrittrice si racconta in un’intervista con ilLibraio.it, e parla dei temi del nuovo libro, del suo “non-metodo” di scrittura, del legame con la sua terra, l’Abruzzo, dei suoi autori di riferimento di oggi e di ieri, di Elena Ferrante e dei premi letterari…

Donatella Di Pietrantonio è una scrittrice riservata. Vive in provincia, a Penne, in Abruzzo. Dentista pediatrica, ha debuttato con Mia madre è un fiume (Elliot, 2011) e nel 2014 è tornata con Bella mia, con cui ha preso parte al premio Strega. Se già la critica aveva apprezzato i suoi primi due libri, è stato con il terzo, L’arminuta, che ha anche segnato il passaggio a Einaudi, che ha raggiunto un numero sorprendente di lettori.

armiuta einaudi

L’arminuta (la ritornata) è una ragazzina di tredici anni che da un giorno all’altro scopre di non essere la figlia delle persone con cui è cresciuta e si trova restituita alla sua vera famiglia. Donatella Di Pietrantonio, si aspettava un’accoglienza così forte da parte dei lettori per questa storia?
“Pensavo che una storia per certi versi così estrema potesse coinvolgere, ma non in questa misura. In molti raccontano di aver letto L’Arminuta d’un fiato, magari in una notte, e di esserci poi tornati per una seconda lettura più meditata. Ed è significativo che in tanti chiedano un seguito, soprattutto per conoscere la vita di Adriana, la sorella della protagonista”.

Uno dei temi più affrontati nei suoi romanzi è la maternità…
“È la mia urgenza narrativa ed è d’altronde un tema universale e antico, inesauribile. Mi interessa andare a guardarlo nelle sue pieghe nascoste, nelle parti in ombra, nelle anomalie. All’opposto dell’amore e del contenimento la relazione madre-figlio può sfociare nell’abbandono, nel rifiuto, nella rinuncia. Così è da sempre, troviamo esempi nella mitologia e nelle fiabe, basti pensare a Medea, Pollicino, Hansel e Gretel. L’Arminuta, dopo la restituzione alla famiglia biologica, quindi dopo un doppio abbandono, dice di essere orfana di due madri viventi”.

Quanto è importante nei suoi libri il legame con la sua terra, l’Abruzzo? 
“In ogni mio romanzo l’Abruzzo si prende uno spazio superiore a quello che vorrei concedergli, è una specie di personaggio un po’ invadente che sgomita per mettersi in evidenza. Quando mi siedo a scrivere è già lì, che si è steso da solo sulla pagina e si offre come ambiente della storia in costruzione. E mi offre anche la sua lingua, la uso con parsimonia, in una forma stilizzata che spero sia rappresentativa dei numerosi dialetti che infestano la mia terra luminosa e dolente”.

Lei è un medico, come concilia i suoi impegni lavativi con la scrittura? 
“Scindo il tempo: odontoiatra di giorno, scrittrice di notte. Ma il momento migliore per me è alle cinque di mattina, quando un flusso di energia interna mi sveglia e mi chiama a scrivere. Questo accade solo se c’è un romanzo in corso, altrimenti dormo beatamente fino alle sette. Comunque l’ora prima dell’alba è magica: le immagini sono più vivide, le intuizioni efficaci. Poi nel corso della giornata trovo altri spazi, ma quello della scrittura resta un tempo rubato”.

A proposito, ci parli del suo metodo di scrittura.
“Il mio ‘non-metodo’ consiste innanzitutto nel pormi in una condizione di estrema permeabilità verso il mondo. Mi lascio attraversare, invadere da tutto ciò che arriva da fuori. So che poi dentro di me avverrà una selezione spontanea degli elementi che nel tempo potranno essere ricompresi nelle narrazioni. E sono sempre in ascolto attento e curioso di quello che avviene nel mio teatro interno. Nella stesura seguo il flusso così come sgorga e torno poi sulla pagina ad asciugare, scolpire, sottrarre”.

Forse anche per via della sua riservatezza, c’è chi la paragona a Elena Ferrante: ha letto i suoi libri?
“Li ho letti e molto apprezzati, anche i romanzi che precedono la quadrilogia, soprattutto La figlia oscura e I giorni dell’abbandono. Riguardo alla riservatezza, è vero che mi ostino a vivere in una terra riservata di suo, ma all’uscita di ogni mio romanzo giro volentieri per le presentazioni, adesso L’Arminuta mi sta portando da Torino a Taranto, con numerose tappe intermedie. L’incontro con i lettori mi arricchisce e mi aiuta a comprendere che cosa davvero ho scritto. Hanno una straordinaria capacità di accompagnarmi nelle zone del testo di cui non ho avuto piena consapevolezza nella stesura”.

Quali sono i romanzi italiani degli ultimi anni che ha amato di più?
“Per via del mio esordio un po’ tardivo ho amato la narrativa di Michela Murgia da Accabadora a Chirù prima che lei potesse così generosamente ricambiarmi. Tra l’altro le nostre terre sono per certi versi sorelle, anche l’Abruzzo è un’isola, in alcuni suoi aspetti. Voglio anche ricordare Il nero e l’argento, il romanzo di Paolo Giordano che ho trovato più intimo e straordinario per sensibilità nel racconto di quelle relazioni interpersonali che capitano per caso, eccentriche rispetto agli affetti familiari, ma intense”.

In generale, quali sono le autrici o gli autori a cui si sente stilisticamente più vicina?
“La prima che mi viene in mente è Agota Kristof nella Trilogia della città di K.. La secchezza della sua prosa è esemplare, senza cedimenti. Apro il libro mentre lo cito e trovo questa frase dei gemelli protagonisti: ‘… il verbo amare non è un verbo sicuro, manca di precisione e di obiettività'”.

In passato ha già partecipato a dei premi letterari. Allo stesso tempo, vivendo in provincia, frequenta poco il mondo letterario. Le piacerebbe che L’arminuta venisse candidato a un premio importante?
“I premi letterari mi sembrano importanti nella misura in cui sovraespongono i libri e li avvicinano a un pubblico più vasto di lettori. Siano i benvenuti, se servono a questo”.

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