Celebrity, marchi, film e altri prodotti culturali sempre più spesso usano il “femminismo” come etichetta per vendere. Ne parla in un’intervista con ilLibraio.it Andi Zeisler, scrittrice e co-fondatrice nel 1996 di “Bitch”, rivista e organizzazione no profit che “promuove e incoraggia una risposta femminista alla cultura pop”

2017, “femminismo” è la parola dell’anno secondo Merriam-Webster, editore del più autorevole dizionario americano, che ogni anno decreta la parola più cercata e usata nella conversazione pubblica. Non sorprende, sia per la quantità di eventi che hanno scosso l’indignazione delle donne in tutto il mondo, sia per l’inestinguibile indeterminatezza di questo termine, oggetto di continue discussioni, manipolato e adattato a seconda di chi lo usa. Non esiste una sola definizione di femminismo ed è impossibile mettere d’accordo tutti.

Andi Zeisler è una veterana del femminismo contemporaneo: ha fondato nel 1996, insieme a Lisa Jervis, Bitch, rivista e organizzazione no profit che “promuove e incoraggia una risposta femminista alla cultura pop”. Bitch nasce come fanzine nel contesto degli Stati Uniti degli anni ‘90, durante l’affermazione del movimento Riot grrrl, rappresentato da band punk al femminile, grazie al quale si ricomincia a parlare di diritti delle donne e uguaglianza. Zeisler ha continuato da allora a diffondere una critica femminista che analizzasse tutti i prodotti culturali contemporanei, soprattutto musica, film e serie tv, ed è una vera autorità in materia di femminismo. Dagli anni ‘90 il femminismo ha subito scossoni e momenti bui, fino ai giorni nostri, in cui è diventato un “accessorio” glamour per riviste di moda e celebrity e un mezzo per vendere prodotti alle donne. Da questo assunto prende le mosse il saggio di Zeisler, We were feminist once, From Riot Grrrl to CoverGirl®, the Buying and Selling of a Political Movement uscito nel 2016 negli Stati Uniti per PublicAffairs. Come recita il sottotitolo, il libro analizza come il termine femminismo sia stato prima svuotato della sua accezione politica e in seguito appropriato da celebrity, marchi, film e altri prodotti culturali come etichetta per vendere.

Andi Zeisler, perché non è possibile definire come femminismo il tipo di empowerment (come lo definisce nel libro) femminile che troviamo nelle riviste, sugli schermi e nelle campagne di marketing?
“È per questo motivo che ho coniato il termine ‘marketplace feminism’ (femminismo di mercato/commerciale): viene definito femminismo ma penso che sia importante differenziarlo dal movimento, che è molto più anticapitalista, finalizzato alla giustizia e, soprattutto, collettivo. Il femminismo piacevole delle celebrità e delle campagne pubblicitarie riguarda l’empowerment individuale, la realizzazione e la gratificazione personale. Ma il femminismo richiede la liberazione di tutte le donne, non solo di quelle che possono partecipare alle declinazioni consumistiche del femminismo”.

Perché è importante superare il pink-washing perché il femminismo possa affermare le sue battaglie?
“È importante perché posizionare il femminismo principalmente nell’ambito del consumo e della cultura popolare cancella il fatto che esso sia soprattutto un progetto in itinere. Le immagini più frequenti e le discussioni più semplicistiche che compaiono nei titoli, per esempio, ‘I tacchi sono femministi?’ oppure ‘Questo personaggio è cattivo per il femminismo?’ occultano quanto il capitalismo stesso sia alla radice della disuguaglianza tra i generi. Se parliamo dell’importanza di potersi comprare una t-shirt femminista da H&M, ma non delle condizioni lavorative delle donne che producono quelle magliette nel Sud del mondo, si tratta di una visione molto parziale di quella liberazione a cui purtroppo si sta dando la priorità”.

Qual è l’espressione di questo femminismo commerciale più deleteria?
“Onestamente non riesco a scegliere la più deleteria, perché gli aspetti del femminismo commerciale variano in quel senso. Ma penso in definitiva che le aziende multinazionali che usano il femminismo come un inganno per vendere prodotti che invece danneggiano le donne sono certamente vergognose, perché si tratta di brand che fanno leva sul discorso dell’uguaglianza di genere per avviare le loro relazioni pubbliche, e invece dietro le quinte non mettono in pratica niente di quello che dicono. Un esempio recente viene da L’Oreal che ha impiegato una testimonial transgender nera e l’ha poi licenziata quando ha preso posizione pubblicamente contro il razzismo”.

Perché ritiene che il femminismo commerciale non possa influenzare positivamente il movimento?
“Non credo di aver affermato che non possa influenzarlo positivamente. Ho parlato sicuramente di quanto sia importante che nel formare l’immagine del femminismo per i giovani si includano figure come Beyoncé e altre celebrity, perché comunica il femminismo come positivo, bello, potente (al contrario della mia generazione che l’ha visto unicamente attraverso la lente della stampa anti-femminista). Ho detto invece che è pericoloso mantenere l’attenzione sui singoli e sull’empowerment individuale: ‘Che cosa fa Beyoncé? Che cosa fa Taylor Swift?’ eccetera. Abbiamo bisogno di parlare del sistema che crea e commercializza quei personaggi, e come i suddetti sistemi interagiscono con ciò che noi crediamo riguardo al genere. E in particolar modo abbiamo bisogno di parlare di più del sistema capitalista che ricompensa i consumatori per non soffermarsi troppo in profondità sulle problematiche del sistema invece che su quelle individuali”.

Qual è l’influenza dei media mainstream nel diffondere quel tipo di femminismo? Ad esempio, le riviste femminili un tempo imponevano diktat della moda, e ora usano il “femminismo” come linea editoriale.
“A voler essere onesti, siamo a un punto in cui lo trovo divertente, ma in modo triste, perché è molto formale e stupido. Il sito di Vogue US titolava: ‘L’ascella di Gigi Hadid è al centro di una controversia femminista’. Ovviamente non lo è, ma Vogue sa che il modo migliore per ottenere i click delle donne è inserire la parole ‘femminista’ nell’articolo. Di nuovo, che sia buono o cattivo per il femminismo è problema minore rispetto al fatto che il termine in questo articolo venga usato come trend per il clickbait, costringendo il femminismo a riguardare le scelte personali delle donne e non a essere un progetto più ampio di liberazione di classe. È davvero fastidioso”.

Il femminismo, in particolare quello che riguarda le celebrità, come lo definisce lei, sembra mettere le donne alla prova, escludendo le più vulnerabili/coraggiose, anche se dovrebbe essere inclusivo. Perché accade, e come è possibile evitarlo?
“È un ragionamento simile a quello che stavo facendo poco fa: se non guardi al sistema (capitalismo, razzismo, classismo) il tuo femminismo non riguarda tutte le donne. E in questo momento ci sono molte cose di cui il femminismo delle celebrità non può parlare o difendere, perché tutti quei sistemi funzionano esattamente come in passato. Se a una donna bianca, per esempio, viene offerta un’occasione pubblica per parlare di violenza sessuale a Hollywood, ma una donna nera che fa lo stesso viene guardata con sospetto, è un fallimento. Ciò ci dice che non riusciamo a universalizzare l’esperienza femminile o femminista. Quindi, il mio consiglio, che mi fa sembrare un disco rotto, è di guardare al sistema, non agli individui. Concentratevi sul progetto olistico di rispondere e rivolgersi a quei sistemi, invece di parlare di chi è la più femminista o il programma tv più femminista o compagnia”.

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