“Il mito della Pontianak è stato un modo per affrontare alcune delle domande sul corpo femminile, sulla violenza contro le donne e la violenza fatta dalle donne su altre donne, sulla tendenza della società a incolpare alcune figure femminili, di bollarle come mostruose. E di riflettere su come i media raccontano l’invecchiamento delle donne, attraverso il personaggio di un’attrice che invecchia”, ci racconta la scrittrice Sharlene Teo, che nel suo “Il cielo di Singapore” scrive una storia tutta al femminile che scava anche nelle tradizioni della sua città natale… – L’intervista

Sharlene Teo, autrice di Singapore che vive a Londra, è arrivata anche nelle librerie italiane con Il cielo di Singapore (E/O, traduzione di Aurelia Di Meo), il suo esordio definito “notevole” dal romanziere Ian McEwan.

Sharlene teo

Singapore, 2003. Szu ha sedici anni, una madre, Amisa, che ha raggiunto il successo interpretando in un film la Pontianak, un mostro assetato di sangue maschile dotato di una bellezza strabiliante, ma che ormai trascorre le giornate a letto o a languire per la casa in pigiama.

Sua zia è una sensitiva che accoglie i clienti a casa e li mette in contatto con gli spiriti dei loro cari defunti. Fuori dalle mura domestiche la vita di Szu non è molto meglio: odia la scuola, sa di essere destinata a fallire. Però ha un’amica, Circe, con cui vive quella relazione strabiliante che è l’amicizia tra ragazze.

Diciassette anni dopo, nel 2020, Circe lavora in un’agenzia di comunicazione e deve promuovere il remake del film che ha reso famosa la madre di Szu.

Nel romanzo, costellato di personaggi femminili, Sharlene Teo affronta l’amicizia femminile, ma riflette anche sul corpo delle donne, sulle ansie e le paure, e dona un ritratto difficile da dimenticare della sua città d’origine, Singapore.

Sharlene Teo, il suo romanzo si allarga su un arco temporale di diciassette anni: incontriamo Szu e l’amica Circe quando sono studenti sedicenni, e poi ritroviamo Szu trentenne. Come è nata questa struttura?
“Ho deciso di esplorare gli effetti dell’accumularsi del tempo: con l’età riflettiamo sulle nostre esperienze e reagiamo in modo diverso se siamo adolescenti o trentenni. Ho raggiunto da poco i trenta e sento un cambiamento radicale nel modo in cui affronto alcune situazioni. Per questo volevo raccontare la storia da due prospettive: quella dell’adolescenza – quando non si è ancora raggiunta l’età adulta – e quella dei trent’anni”.

Un aspetto di Szu che non cambia mai, però, è la sua certezza di essere destinata al fallimento. Una caratteristica curiosa per una ragazza di sedici anni: se si pensa ai personaggi adolescenti solitamente si vede un cambiamento radicale, lo zimbello del liceo diventa un adulto di successo e viceversa…
“Volevo scrivere quel tipo di libro che non capita spesso di leggere, dove i personaggi sono simili alle persone reali: niente bianco o nero, né cambiamenti radicali nel tempo. Mi interessava raccontare dei personaggi femminili con una vita vera. Se pensiamo alla quadrifonia di Elena Ferrante – che ho amato – ci sono due amiche giovanissime all’inizio e Lila è sempre un po’ più speciale di Elena”.

Le sue, invece, sono due amiche normali.
“Sì, innocenti, che non cambiano. Ovviamente ci sono episodi in cui Szu spicca per la sua originalità, mentre Circe vive delle situazioni più regolari, anche perché lei viene da una famiglia più solida. Ma le dinamiche tra di loro sono quelle di un’amicizia tra normali adolescenti, dove ci sono comunque momenti in cui il potere passa dalle mani dell’una a quelle dell’altra: le amicizie spesso seguono le stesse regole delle storie d’amore, soprattutto quando si è così giovani”.

Nel romanzo tutti i personaggi principiali sono donne. Si tratta di una scelta militante, soprattutto dopo le discussioni degli ultimi anni riguardo alla rappresentazione femminile in letteratura?
“Si tratta di una scelta deliberata, porre le donne al centro del libro e mantenere i personaggi maschili ai margini. Ed è il mio modo di rispondere a narrazioni legate ai preconcetti e alle aspettative che talvolta si hanno su dei personaggi. Mi sono concentrata sulle storie di alcune donne di Singapore, che provengono da uno specifico contesto culturale, per raccontare una realtà che non facesse riferimento ad alcun luogo comune, come ad esempio quello di un gruppo di donne che combatte per lo stesso uomo”.

Una presa di posizione in qualche modo femminista…
“Infatti mi sento una scrittrice femminista. E trovo che essere femminista sia parte del lavoro dello scrittore”.

Con quali effetti?
“La messa in discussione e il capovolgimento delle strutture e dei luoghi che detengono il potere. Mi interessa anche indagare il tema della mascolinità tossica e del peso che grava anche sugli uomini. Trovo insulso che ancora oggi dobbiamo sentirci in dovere di incarnare ruoli di genere e rispettare antiche regole patriarcali che ci costringono a comportarci in un modo che non ci rispecchia o che ci limita. Da scrittrice sento che è parte del mio lavoro mettere in discussione queste sovrastrutture. Come si fa a non essere femministi? Soprattutto nel mondo in cui viviamo, come si può non voler sovvertire un potere che costringe così tante persone in una situazione di svantaggio? Oltretutto per il bene di pochissimi”.

Un aspetto molto interessante del romanzo è la figura della Pontianak, una donna bellissima che si aggira per le strade di notte e adesca uomini per ucciderli. Come è entrata nel romanzo?
“Pensare che all’inizio volevo scrivere un romanzo dal punto di vista del mostro. La Pontianak è un personaggio femminista: è molto bella, sexy e nonostante uccida gli uomini non sembra un mostro. Un aspetto interessante se confrontato alle belle donne rappresentate dai media come vittime o prede sessuali”.

Come mai poi la trama è cambiata?
“Alla fine ho deciso di cambiare la direzione del libro perché volevo raccontare la mostruosità dell’essere umano, piuttosto che di un mostro vero e proprio. Inoltre, la leggenda della Pontianak è legata a Singapore e a una rete di superstizioni e miti tramandati oralmente: scriverne è stato anche un modo di ricollegarmi alla cultura della mia città e di ripercorre le storie con cui sono cresciuta. E mi ha permesso di affrontare un tema che mi affascina, la paura”.

Il fatto che la madre di Szu abbia raggiunto il successo interpretando il mostro in un film e che in seguito sia caduta nell’oblio non è un caso…
“Infatti. Pensiamo alla paura di invecchiare delle donne: tutti hanno paura di invecchiare perché temono la morte, ma gli uomini sono preoccupati dalle malattie che possono arrivare con l’età, le donne invece hanno anche paura di perdere la bellezza e il loro potere attrattivo. Perché un uomo di mezz’età è affascinante, se è single è un playboy, invece una donna è da compatire. Il mito della Pontianak è stato un modo per affrontare alcune delle domande sul corpo femminile, sulla violenza contro le donne e la violenza fatta dalle donne su altre donne, sulla tendenza della società a incolpare alcune figure femminili, di bollarle come mostruose. E di riflettere su come i media raccontano l’invecchiamento delle donne, attraverso il personaggio di un’attrice che invecchia”.

Un altro personaggio del romanzo è la città di Singapore. Nonostante viva da anni a Londra, ha deciso di ambientare il romanzo nella metropoli asiatica.
“Sì, sono a Londra da molti anni ma non riesco a scrivere una storia ambientata nella mia attuale città. Singapore, invece, è il luogo in cui ho vissuto per i miei primi 19 anni di vita, è il posto in cui ho letto i libri e gli scrittori che mi hanno formata, dove si è plasmata la mia identità. E poi mi sembrava una scelta interessante, perché non è così comune leggere opere ambientate a Singapore. Per me alla fine è stato un lavoro di memoria, perché mi sono dovuta impegnare a ricordare com’era la città nel 2003, quando avevo più o meno l’età delle mie protagoniste”.

Come racconterebbe la sua città natale ai lettori italiani?
“Singapore è una città cosmopolita e moderna. Accanto al progresso convive un aspetto di multiculturalità che genera un substrato di decadenza in un luogo fondato in tempi recenti, accogliendo diversi gruppi etnici e numerose lingue e culture”.

Prima menzionava le letture che l’hanno formata. Chi sono gli autori che hanno lasciato un segno sulla sua identità di scrittrice?
“Carson McCullers, la scrittrice coreana Bae Suah, Mary Gaitskill, Miranda July, Lucia Berlin, Margaret Atwood. Sono state letture molto formative. Come si può notare, leggo più che altro autori contemporanei. Ora sto provando a leggere più classici, perché credo sia importante confrontarsi anche con le storie senza tempo. Allo stesso modo, mi piace scoprire la letteratura in traduzione”.

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