“Per me la scrittura è sempre al servizio della vita, di una esigenza della realtà. Ho passato anni immaginando di scrivere un libro sull’attesa di un figlio, ma non ci sono riuscita. Ho raccolto tanto materiale, ma poi per iniziare davvero ho avuto bisogno del pungolo della mia gravidanza…” Su ilLibraio.it un’intervista-confessione a Silvia Avallone (“Ho 33 anni e spero si percepisca una certa maturità…”) in occasione dell’uscita del suo terzo romanzo, “Da dove la vita è perfetta”. Quanto ai riferimenti letterari, l’autrice di “Acciaio” cita Paolo Giordano e Roberto Saviano, ma non solo: “Elena Ferrante, insieme ad Elsa Morante, è stato l’altro grande mio riferimento per scavare dentro la pancia, le contraddizioni e persino l’oscurità della maternità e della femminilità in genere”

Dopo Anna, Francesca e Marina, adesso tocca a Dora e Adele: le figlie ribelli affamate di vita e di un altrove che le riscatti dalla loro marginalità, sono tornate. E ora stanno per diventare madri. Sono loro le eroine del nuovo romanzo di Silvia Avallone, Da dove la vita è perfetta (Rizzoli). La scrittrice che si è imposta con uno dei romanzi d’esordio più acclamati degli ultimi anni, Acciaio e ha confermato il suo talento con Marina Bellezza, questa volta parte dalla propria esperienza di neo-mamma per raccontare l’attesa di un figlio dal punto di vista di chi deve fare i conti con una gravidanza non voluta, come la 17enne Adele, e chi invece lotta per colmare quel vuoto come Dora. Accanto a loro rispettivamente Manuel, che per un pezzetto di mondo placcato oro è disposto a tutto ma sembra nato per perdere, e Fabio, l’amore di una vita che pare deflagrare di fronte ad un bambino che non arriva. E poi c’è Zeno, che dei desideri ha già imparato a fare a meno, e ha solo diciassette anni. Ambientato a Bologna, tra il centro brulicante di speranze degli studenti universitari e una periferia immaginaria, il Villaggio Labriola costruito sulle esclusioni, la Avallone torna a parlare di giovani donne e uomini alla ricerca di un avvenire diverso, questa volta però dalla prospettiva inedita di chi, pur rimanendo per sempre figlio, dovrà fare i conti con il diventare genitore. Ed è questo l’orizzonte da cui la vita, sebbene non perfetta, può assumere un nuovo nome. ilLibraio.it ne ha parlato in questa intervista con l’autrice.

Silvia Avallone copertina

Da dove la vita è perfetta è il nome della panchina dato da due migliori amiche che nel momento in cui viene descritta non lo sono più. Che ruolo ha questa panchina considerando che è diventata il titolo del libro?
“Il titolo è un mio verso giovanile, di quando scrivevo poesie a Bologna nel primo studentato in cui ho vissuto. Ed è una poesia che avevo dedicato a quella che è ancora oggi la mia migliore amica. Si riferisce a una panchina dove io immaginavo ci saremmo sedute, come già era accaduto in Spagna, a guardare la vita che da lì ci sembrava perfetta. È un verso a cui sono affezionata e che ribadisce quanto sia importante per me il tema dei luoghi e della geografia, del nascere in un contesto e di desiderare di essere altrove, di spostarsi e cercare la propria strada”.

E infatti è presente in tutti i suoi romanzi.
“Sì, perché adoro descrivere i margini, le periferie, le province: questi sono luoghi da cui si immagina, da cui si desidera. Per questo il ‘da dove’: non credo ci sia un luogo in cui la vita è perfetta, ma è fondamentale riuscire a muoversi sempre per cercarla”.

Per questo il titolo?
“A onor del vero avevo consegnato il libro senza titolo perché non volevo avere l’onere questa volta di essere io a sceglierlo. Ero troppo coinvolta dalla storia. Non riuscivo a dare un nome alla mia creatura, così è stato il mio editore a un certo punto a chiamarmi e a suggerirmelo. E io gli ho risposto che non poteva trovarne uno più giusto”.

Questo è il suo terzo romanzo, diviso in tre parti, uscito il 30.3 e il primo capitolo si intitola 3 chili e 400 grammi. Qualche simbologia numerica?
“In effetti non ci avevo pensato. Beh, c’è una coppia che tende a diventare tre, un’altra che non tende diventarlo ma che in qualche modo lo diventerà oppure no. C’è quindi un grande desiderio per un figlio, per questo ‘terzo’, che è uno dei motori del romanzo, almeno per Dora e Fabio”.

Un desiderio che nasce da una mancanza da colmare.
“Per me il desiderio è il motore della scrittura e della lettura: se i libri non fossero degli oggetti erotici, leggerli o scriverli sarebbe terribilmente noioso. Il desiderio è invece interessante perché parte da una mancanza, da una assenza. In questo libro, accanto al desiderio di essere altrove, c’è quello di avere un figlio o, rimanendo incinta, di tenerlo o meno”.

Quanto ha contato il suo essere diventata madre nel racconto di questo desiderio?
“Questa è la domanda. Per me la scrittura è sempre al servizio della vita, di una esigenza della realtà. Ho passato anni immaginando di scrivere un libro sull’attesa di un figlio, ma non ci sono riuscita. Ho raccolto tanto materiale, ma poi per iniziare davvero ho avuto bisogno del pungolo della mia gravidanza. Per quanto non sia un libro autobiografico, l’attesa, la gestazione e soprattutto il parto sono state esperienze fondamentali e di cui ho scritto subito perché non volevo dimenticarne i dettagli. E sono stati questi dettagli che mi hanno permesso di avere la chiave per raccontare una storia più vasta”.

Ma essere genitori cosa significa per i personaggi del libro? E cosa ha significato per lei?
“Questo è stato l’altro pungolo che mi ha spronata. Sarai genitore, lo stai diventando e ora lo sei: il libro ha accompagnato tutte e tre queste fasi e ho sentito la paura, la sfida, ma soprattutto la responsabilità non di trovare una risposta, sarei troppo ambiziosa, ma di cercare una traccia. Ed è quella a cui giunge Dora: significa davvero accettare senza difese e senza paracadute che tuo figlio sia un altro. Perché ogni figlio non ci appartiene, non è una nostra proprietà, anzi. Però abbiamo il dovere di accompagnarlo, di indicargli la via affinché possa crescere libero e autonomo, il più possibile sereno, senza dargli in eredità i nostri problemi, i nostri difetti e le nostre colpe”.

Questa è la storia d’amore e di abbandono di genitori visti dai figli, che poi, come lei stessa afferma, è l’unico modo di guardarli…
“Qui ci sono, come in ogni mio romanzo, dei figli che guardano i genitori. In questo caso è soprattutto Adele che guarda i due genitori in maniera molto critica. A me piace molto raccontare l’adolescenza, quel passaggio traumatico in cui cominci a giudicare e ad opporti ai tuoi genitori per affermare te stesso e separarti da loro. Ma separarsi da un genitore, così come da un figlio, è un processo doloroso, che inizia dal parto e non credo finisca mai. In questo romanzo i protagonisti si chiedono cosa significhi essere dall’altra parte e cambia la prospettiva. Anche se, in realtà, non si smette mai di essere figli”.

Come immagina la sua vita vista da sua figlia? Lei ha raccontato che spesso fa il gioco inverso, ovvero mettersi nella mente di sua figlia per provare a comprenderne le esigenze…
“Il motivo più grande per cui amo scrivere e leggere è proprio mettermi nei panni degli altri e farlo con una certa empatia. In questo risiede la mia grande fiducia nei libri. Il valore etico per cui dovrebbero essere strumenti per cambiare il mondo. Io ci credo, anche se posso apparire ingenua: trasportandoti in vite, menti ed emozioni diverse dalla tua, diventi un cittadino in grado di comprendere le esigenze altrui e puoi abitare il mondo con molta più generosità. Senza libri saremmo tutti un po’ più egoisti”.

Ha citato il suo amore per i luoghi che hanno sinora avuto grande peso nella verità e autenticità dei suoi romanzi. In questo caso le vicende sono ambientate a Bologna, la sua attuale città, ma molti posti sono immaginari. Un binomio inedito.
“Questa volta ho tirato le somme rispetto ai libri precedenti, ma continuando il mio filone in maniera diversa. Ho voluto anche qui raccontare la marginalità e l’esclusione, perché sono per me i territori più cari. Mi piace solidarizzare con coloro che si trovano in una situazione di svantaggio, anche geografico. In questo caso ho voluto però inventare un quartiere di periferia, l’ho costruito come un architetto e a un architetto poi ho domandato se potesse funzionare come progetto. Ne sono molto fiera”.

Una città invisibile alla Calvino?
“Sì, ma che sta in piedi ed è credibile. Qui ho immaginato tutte le possibili esclusioni. Non solo il fatto di essere in periferia. Ho cercato di racchiudere il “da dove” di cui parlavamo prima in questo quartiere. Che si contrappone ad un centro realissimo che è quello di Bologna che amo moltissimo. È la città in cui vivo, quella in cui sono approdata. Io sono infatti come Dora e Fabio, arrivo dalla provincia. Bologna sia per loro che per me è la città del futuro, la città da cui proietti tutti i sogni, la città universitaria, piena di giovani che portano con sé le proprie speranze, contrapponendosi come luogo del desidero e del sogno, alla marginalità del Villaggio Labriola che ho ricreato e che sin dal nome è piuttosto evocativo”.

A proposito dei nomi, una citazione emblematica che fa attraverso la caccia al tesoro organizzata da Zeno perla cuginetta Agnese riprende Gertrude Stein attraverso Elsa Morante e riguarda l’importanza dei nomi – e Il nome è anche il titolo dell’ultimo capitolo – : “Non si può trasferire o travisare il valore della parola, giacché le parole, essendo i nomi delle cose, sono le cose stesse. Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa”.
“Le parole per me sono al servizio della realtà. È la storia stessa che ti dà il ritmo, che sceglie il linguaggio. In questo io sono un po’ discepola di Elsa Morante, che non a caso viene citata. La Morante aveva fede nell’onestà delle parole. Era convinta che la parola esatta esistesse davvero per raccontare quella determinata cosa. È una fede che non tutti gli scrittori hanno. Io ce l’ho. Mi sono anche laureata su Elsa Morante, per cui cerco di seguire i suoi precetti”.

L’uso della parola e dei nomi che lei fa denota uno studio e un voler centellinare i vocaboli, senza rinunciare ad uno stile di scrittura fluido.
“Ho 33 anni e spero si percepisca una certa maturità. Sono passata attraverso altri due libri e tanti anni di scrittura prima di questo. Non so quanti inizi ho scartato prima di questo romanzo. Eppure anche gli anni di scrittura a vuoto servono tantissimo. Poi questo libro è stato scritto con dei ritmi precisi poiché avevo poco tempo”.

Per la sua attività di mamma?
“Sì. Ho dovuto approfittare di pisolini, della notte o di un’ora libera in un qualsiasi momento della giornata. Questo ha significato non solo un lavoro di concentrazione molto preciso, in cui non potevo permettermi di raccontare il superfluo, ma di essere stringente su quello che avevo davvero da dire. E poi anche una costruzione, che in precedenza non facevo. Ho fatto molti schemi, ho lavorato di architettura. Questo mi ha permesso di essere asciutta”.

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Tornando alla gravidanza, lei racconta diverse tipologie di rapporto con l’attesa di un figlio. Il carattere viscerale della genitorialità femminile e al contempo l’impossibilità di concepire e l’iter dell’adozione, sono temi molto dibattuti. Si pensi alle polemiche sul Fertility Day…
“Io penso che oggi, a differenza del passato, ci sia una ricerca di dare significati nuovi a queste esperienze, anche perché la donna finalmente si è emancipata, sebbene ci siano ancora molti ostacoli da superare. Io ho voluto raccontare, senza dare delle definizioni, l’attesa di un figlio e questa c’è a prescindere dalla gravidanza. Non sono il parto, né la biologia a rendere genitori, anzi. Tuttavia la gravidanza, se vissuta con desiderio o nella volontà, come nel caso di Adele, di dare un significato a quello che si sta vivendo, è sicuramente un’esperienza forte a partire dall’impatto di un corpo che cambia e viene abitato”.

E poi c’è Dora…
“Sì, c’è l’attesa di chi aspetta un figlio senza avere una gravidanza. E anche qui ci sono degli aspetti di desiderio, di paure e difficoltà. Comunque il cammino per diventare genitore è aperto ed è un cammino, nel caso dell’adozione, molto difficile, che merita tante discussioni. Ma tutto parte da una domanda: ‘cos’è un genitore?’. Io per ora racconto l’arrivo ad esserlo in due modi diversi, ma è sempre il mettersi in discussione per accogliere un altro”.

Rispetto allo stile, il suo è inconfondibile. Già dai tempi di Acciaio. Come ci lavora? Ci sono dei riferimenti letterari in particolare a cui si è ispirata per questo romanzo?
“Elena Ferrante, insieme ad Elsa Morante, è stato l’altro grande mio riferimento letterario proprio per scavare dentro la pancia, le contraddizioni e persino l’oscurità della maternità e della femminilità in genere. L’altra grande domanda che mi sono posta è stata: cos’è una donna? È molto difficile perché noi siamo ancora qui a lottare per non essere schiacciate nel ruolo di madre e moglie. Fondamentalmente ce lo hanno detto gli altri cosa dobbiamo essere. Elena Ferrante ha guardato dentro i nostri istinti e fenomeni tellurici. Ci sono scene di violenza molto forti nei suoi romanzi e nei suoi racconti che mi sono state di esempio di scrittura”.

A lei interessa sapere chi è Elena Ferrante?
“Non mi interessa assolutamente. Anzi, rispetto totalmente la sua scelta”.

Lei vive a Bologna, “lontana” dall’ambiente letterario: preferisce tenersi a distanza?
“Per me Bologna è l’approdo. Ci sono arrivata e tutte le cose più importanti della mia vita sono accadute qui. Ormai credo che non la lascerò mai. I miei migliori amici sono rimasti quelli del liceo e dell’università. Sono una persona estremamente fedele agli amori e ai luoghi che mi hanno accolto”.

Rispetto al mondo editoriale?
“Per me contano gli incontri. Ho incontrato degli scrittori con cui sono nate delle amicizie, anche a distanza. Questo è accaduto ed è stato molto bello. Però sono sempre le singole persone, i dialoghi che si instaurano ad essere importanti”.

E quali tra questi incontri, magari con autori della sua generazione, l’hanno cambiata?
“È una domanda difficile, perché si rischia sempre di dimenticare qualcuno. Ci sono molte persone che ammiro tantissimo. Ho il ricordo di quando ero allo studentato e stavo per iniziare a scrivere Acciaio e cercavo avidamente dei riferimenti. In quegli anni ci sono stati due casi editoriali di scrittori che ammiro molto: Paolo Giordano e Roberto Saviano. La misura di una scrittura come quella di Giordano che scava dentro le cicatrici, dentro il dolore, dentro la famiglia e dall’altro lato il grande respiro civile di Roberto Saviano hanno influenzato gli orizzonti che mi sono sempre interessati”.

Orizzonti che coincidono con le sue figlie letterarie ribelli in Acciaio e Marina Bellezza e anche con le protagoniste di questo romanzo, donne o adolescenti che hanno a che fare con l’essere figlie e madri. Quali sono i punti in comune tra queste sue “creature”?
“A me piacciono le ragazze sfortunate, giovani e un po’ maledette, ma non per colpa loro. Hanno alle spalle una storia molto difficile che le pone in una posizione di svantaggio, ma da cui vogliono riscattarsi, ognuna a modo suo. Anna, Francesca, Marina, Adele provengono da famiglie che hanno problemi economici, madri sciagurate e padri maledetti, vivono ai margini. Sono famiglie disgraziate ma anche capaci di affetto”.

E sono molto vere.
“Beh, si parte sempre dal fatto che ogni famiglia ha il suo grado di problemi”.

Tolstoj lo ha detto emblematicamente.
“Esatto. Però io preferisco raccontare le famiglie svantaggiate in partenza. Mi piacciono i casermoni popolari, l’umanità ribollente, piena di fame, ma anche capace di fare comunità. La solidarietà e l’aiutarsi di chi vive problemi simili”.

Il caso di Dora però è un po’ diverso.
“Sì, con lei mi sono allargata: lei proviene da una famiglia benestante, ma ha un altro svantaggio. È nata con una malformazione, ha anche subito un’operazione da adolescente. Il suo ‘senza’, quel vuoto che si porta dentro, non per un dolore familiare, ma per un dolore fisico è ciò che poi le permette di sfidare così tanto il mondo, di raggiungere i suoi obiettivi e di essere così tenace, focosa, pugnace, ma anche sensibile con gli altri. Credo che il male non ci renda migliori, ma i vuoti e le cicatrici ci danno l’opportunità di percorrere strade non scontate”.

E gli uomini in tutto questo?
“Molti me lo fanno notare. Eppure in tutti i miei libri c’è sempre un uomo molto positivo: Andrea, Alessio a suo modo in Acciaio lo era, in quest’ultimo c’è Zeno che per me è il personaggio più bello e a cui sono più affezionata nel libro. Lo è anche Fabio con le sue cadute. Tuttavia sono convinta che ci sia ancora in Italia, e in tutto il mondo, un’idea di uomo che rimane saldamente fissa: è l’uomo che se ne può andare, che può essere violento e abbandonare i figli. Una donna che abbandona un figlio è un mostro. Rimangono questi preconcetti. Siamo ancora a un numero di femminici folle, non si può evitare di raccontare questa radice che nasce molto presto. Da Manuel che parla con Adele: hanno 17 anni, ma i problemi di lui sono più grandi e prioritari rispetto a quelli di lei. Io trovo che questa sottocultura pericolosissima sia innervata in ogni ramo della nostra società. Quindi raccontarla è un modo per affrontarla”.

Ora che questo terzo romanzo è nelle mani dei lettori, come si sente? Teme le critiche?
“Il libro è una tua creatura. Questo poi è stato scritto in un momento molto particolare per me.Tutto ciò che è una critica oggettiva e costruttiva è benvenuta, quella più cattiva, ovvio non fa piacere. Tuttavia non puoi piacere a tutti ed è molto difficile convivere a volte col giudizio degli altri. Quanto riusciamo ad essere sempre giudicati, in competizione? Serve trovare il giusto equilibro tra il bisogno di difendersi e il volersi mettere in gioco”.

Su ilLibraio.it Pamela Paul del New York Times ha perché è ancora importante leggere le recensioni dei critici professionisti nell’era dei social. Lei cosa ne pensa?
“In tutto ciò che fai, è il percorso che conta: i sacrifici, le competenze acquisite, lo studio, la laurea. La durata è tutto per me: quanto valgono le tue parole è anche il frutto di una storia, non di un caso. Do molto valore a una persona che ha studiato una vita e dice la sua. Anche se è sempre prezioso il giudizio di istinto di un lettore che magari non sa nulla di letteratura. Tuttavia sottolineo questo discorso del sacrificio perché penso sia giusto, soprattutto per le nuove generazioni, sapere che la strada più difficile è quella migliore. Anche se oggi la parola futuro è la più difficile da pronunciare vorrei che ci fossero sempre dei progetti e la voglia di non rinunciare a realizzarli, optando per la via più veloce. Occorre considerare la vita non come un momento, ma come una storia che si sviluppa nel tempo e che riceve senso nella sua durata”.

 

 

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