“Hallyu” è un termine cinese che, tradotto, significa letteralmente “onda coreana”: è un fenomeno che investe tutta l’industria creativa e d’intrattenimento della Corea del Sud, dal cinema alla moda, passando per la musica, con l’ascesa (anche tra i ragazzi occidentali) del K-Pop – L’approfondimento

Tutto è iniziato con un nuovo film Netflix: Tutte le volte che ho scritto ti amo, una commedia romantica adolescenziale, tratta dal libro della scrittrice coreana Jenny Han. Il film, divertente, oltre a presentare elementi innovativi nella trama, ha una particolarità che lo rende ancora più originale: la protagonista è di origini asiatiche. Certo, non è una novità assoluta, soprattutto se si considera l’enorme successo ottenuto di recente da Crazy Rich Asians di Jon M. Chu ma, come sostiene il New York Times, non si può dire che siamo abituati a vedere, soprattutto sul grande schermo, molti personaggi provenienti dal sud-est asiatico (e infatti il film è arrivato nelle sale italiane con il titolo Crazy & RichSenza “Asians”, appunto). 

Dopo aver guardato Tutte le volte che ho scritto ti amo, Netflix ha iniziato a inserire, nella lista dei titoli che “potrebbero interessarti anche”, serie tv coreane, tra cui Something in the rain, che racconta la storia di una donna in carriera che ritrova il fratello della sua migliore amica di ritorno da un periodo all’estero e comincia a vederlo con occhi diversi. Ma la sezione “korean dramas” è molto più vasta di quanto si possa immaginare, e in realtà dietro quella sfilza di titoli c’è un vero e proprio fenomeno che investe tutta l’industria creativa e d’intrattenimento coreana. Viene definita “Hallyu”, un termine cinese che, tradotto, significa letteralmente “onda coreana” e si usa per riferirsi alla crescita culturale della Corea del Sud, che riguarda musica, film, serie, videogiochi, moda e cucina (molto diffuso adesso è il kimchi, un piatto tradizionale di verdure fermentate con spezie).

Quando è cominciata questa rinascita? 

Se si volesse fissare una data simbolica, si potrebbe dire che la Corea del Sud ha cominciato a rinascere nel 1999, grazie a un film e a una serie che hanno riscosso successo in tutti i paesi del Sud-est asiatico: parliamo di Swiri e della soap intitolata Autumn in my heart, seguiti poi da My Sassy girl nel 2001 e da Winter Sonata nel 2004. I film sudcoreani hanno iniziato a conquistare rilievo, soprattutto all’interno del circuito dei festival internazionali e del cinema d’autore. Il noto regista Kim Ki-duk ha ottenuto numerosi riconoscimenti per i suoi lavori, tra cui il Leone d’Oro per Pietà e il Leone d’Argento per Ferro 3. Ma anche Old boy e Lady Vendetta di Park Chan-wook sono ormai diventati cult tra i cinefili occidentali.

Ma più dei film e delle serie, è la musica sudcoreana, in particolare il pop, ad aver conquistato il pubblico di diversi paesi, tra cui l’Italia. Il K-pop (Korean pop) è un genere commerciale rivolto principalmente agli adolescenti. Anzi: alle adolescenti.

Gli idol (cioè i cantanti di K-pop) sono per la maggior parte boyband e girlband, e tra i nomi più gettonati ci sono gli iKON, gli EXO, le Blackpink e soprattutto i BTS, il primo gruppo sudcoreano ad aver raggiunto la vetta della classifica Billboard, con Love Yourself: Tear.

Apparentemente i k-idol si presentano come dei ragazzini con ben poca percezione del senso estetico, vestiti combinando colori e stili diversi: camicie leopardate, cappelli hip hop, giacche di pelle con strass e qualsiasi altro indumento di cattivo gusto possa venire in mente (anche se, alla fine, si potrebbe addirittura dire che abbiano una certa identità, un loro “stile”). Inoltre hanno tutti un aspetto molto simile, come se ci fosse un canone da seguire: corpi magri, carnagione bianchissima e occhioni enormi, ottenuti grazie a operazioni di chirurgia palpebrale e blefaroplastica (molto diffusa in Corea, anche tra i più giovani) alla quale sembra che tanti dei k-idol si sottopongano. Un dettaglio inquietante, se si considera che la cultura coreana crede fortemente nella fisiognomica, disciplina pseudoscientifica che deduce i caratteri psicologici di una persona analizzando l’aspetto fisico a partire dal viso.

E ora veniamo al pubblico. Chi ascolta K-pop ha un’età compresa dagli 11 ai 18 anni ma, a quanto pare, c’è una parola precisa per indicare le ragazze che seguono questo genere di musica: vengono chiamate fan sasaeng e si differenziano dalle fan normali per il loro comportamento morboso, ai limiti dello stalking. Il termine è composto dalle parole “sa” che significa “privato”, e “saeng” che significa “vita”: in pratica una sasaeng è una fan talmente ossessionata da invadere la vita privata dei propri idol. Sono organizzate in gruppi che assomigliano a sette, con principi e regole da seguire, e anche se sono solo delle ragazzine, in realtà possono essere pericolose. Ci sono addirittura blog e siti che riportano alcune delle vicende più sconcertanti: sembra che alcune sasaeng utilizzino sangue mestruale per dichiarare amore ai propri idol, o che si nascondano dentro le loro case per spiarli. Per non parlare dei messaggi morbosi, delle lettere disperate e degli inseguimenti in taxi. Pare ci siano stati anche dei tentativi di rapimento.

Potrebbe essere riduttivo raccontare il K-pop come una tendenza passeggera, perché dietro l’ondata coreana sembrano esserci motivazioni più articolate, e soprattutto una sorta di progetto politico più complesso, che vede la Corea del Sud come uno dei pochi paesi al mondo ad avere l’obiettivo di diventare tra i principali esportatori mondiali di cultura popolare. Si tratta di una strategia di “soft power”, attraverso cui un paese esercita il proprio potere non attraverso la sua forza, ma attraverso la sua immagine.

La moda della cultura coreana ha contagiato prima Cina e Giappone, per poi diffondersi nel Sudest asiatico e lentamente anche in Occidente. Ovviamente questo ha inciso positivamente sull’economia: basti pensare che nel 1965 il PIL pro capite della Corea era inferiore a quello del Ghana, mentre oggi la Corea del Sud è la dodicesima economia più potente del mondo. Sotto questo profilo, dunque, lo “hallyu” non ha più un valore soltanto culturale, ma diventa anche uno strumento attraverso cui il Paese può ricostruire la propria identità politica ed economica.

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