Pierdante Piccioni, primario affermato, ha avuto un incidente che gli ha cancellato dodici anni di vita. Ora è in libreria con “Pronto soccorso – Storie di un medico empatico” e su ilLibraio.it racconta, attraverso un episodio autobiografico, l’importanza della comunicazione tra medici e pazienti

“Ciao Pier, scusa se ti disturbo ma stanno portando Giuseppe in Pronto Soccorso con l’ambulanza. Ha avuto un forte dolore al fianco ed è svenuto. Poi si è ripreso ma ha ancora molto dolore. Lo sai che è uno zuccone. Si è convinto a farsi portare solo perché non ce la faceva a stare in piedi dal dolore. Qui in Pronto Soccorso gli hanno fatto un’ecografia e una flebo. Adesso sta meglio. Dicono che ha avuto una colica renale. Il medico di Pronto Soccorso ha chiamato più di due ore fa l’urologo ma non si è ancora visto. Qui non è che ci dicano molto. So che hai appena finito di lavorare nel tuo di Pronto Soccorso ma sono molto preoccupata. Puoi venire?

Al telefono c’è Simona. Giuseppe è mio cognato. Per andare lui in Pronto Soccorso deve proprio stare male.

“Certo che vengo. Effettivamente ho appena finito di lavorare e sto tornando a casa. Giro la macchina e tra mezz’ora sono lì”.

Appena finisco di lavorare, mentalmente mi denudo della mia divisa da medico. Lo faccio tutte le volte. Mi serve per non scoppiare. Guido ascoltando la radio.

Mentre mi dirigo verso il Pronto Soccorso dove hanno portato mio cognato mi rivesto dei miei panni mentali di medico di pronto soccorso.

È una sorta di rito medievale. La vestizione del guerriero.

Comincio a ragionare.

“Visto che gli hanno fatto l’ecografia hanno sicuramente pensato alle cause potenzialmente pericolose per la vita. Certo una TAC sarebbe meglio, ma magari la stanno programmando. Però, se gli hanno fatto una terapia, peraltro efficace visto che il dolore è passato, vuol dire che qualche ragionamento l’avranno pur fatto.”

Noi medici di pronto Soccorso siamo gente strana. Noi tendiamo a ragionare in negativo. Quello che ci interessa non è di capire esattamente cosa ha il nostro paziente. No. A noi interessa soprattutto escludere che chi abbiamo davanti sia in immediato pericolo di vita.

Le patologie pericolose per la vita le chiamiamo pomposamente “tempo-dipendenti”.

Ci siamo creati un sacco di protocolli, linee guida, raccomandazioni, tutte piene di evidenze medico-scientifiche per rendere più efficace il nostro lavoro. Ci abbiamo scritto libri, che consideriamo le nostre bibbie. Tutti improntati alla correttezza del processo decisionale e ai possibili errori da evitare.

Devo dire che siamo stati molto bravi in questo. Il livello delle nostre produzioni scientifiche è molto elevato.
I problemi iniziano quando cominciamo a parlare di comunicazione. In questo campo nessuno ci ha insegnato nulla. Non all’università. Non in specialità.

Ciascun medico in questo campo è autodidatta e, si sa, quando te la fai e te la disfi da solo rischi l’autoreferenzialità e quindi la possibilità molto reale di continuare a sbagliare per una vita.

Chi mai ci ha spiegato che il contesto ambientale deve esprimere accoglienza e non rifiuto, che il linguaggio e le strategie comunicative sono fondamentali. Che le parole sono molto meno importanti della comunicazione non verbale e che se ti metti in piedi davanti a una persona sdraiata e sofferente devi essere conscio che il potere ce lo hai in mano tu.

Oppure che devi pensare che la persona che hai davanti ha dei valori, delle convinzioni, un vissuto affettivo ed emotivo che è solo suo e che in quel preciso momento, tra te, medico e lei o lui, paziente persona si sta verificando un rapporto unico ed irripetibile.

Certo anche tu sei una persona, oltre che un professionista, ma è evidente che il vostro rapporto è asimmetrico. Sei tu, medico che devi capire quali sono le sue conoscenze, le sue paure, le sue aspettative. Sei tu quello che deve avere l’autoconsapevolezza che c’è una parola magica che devi dire tu: empatia. Una brusca manovra di chi mi sta davanti mi riporta alla realtà.

“Però, a sentire mia cognata, hanno fatto quello che regolarmente mi fa incazzare quando lo fanno i miei collaboratori. Non hanno comunicato in modo adeguato con paziente e parente. Mi immagino già che i miei colleghi mi diranno le solite frasi sul casino che c’è in Pronto Soccorso, sul sovraffollamento che è sempre peggio, che non ci sono risorse, che si sentono abbandonati in prima linea. Non che abbiano tutti i torti, per carità. Anzi hanno un sacco di ragioni. Ma cosa cazzo ti costa impiegare due minuti per spiegare a chi ti sta davanti cosa gli stai facendo e magari con un sorriso e modi educati?”.

Non è una fissa da primario, la mia. I gradi non c’entrano. C’entrano che io sto tuttora frequentando un master in “pazientologia” e so cosa vuol dire passare dall’altra parte della barricata.

Lo dico sempre ai miei. “Essere comunicativi è gratis”.

Certo non è sempre facile. Ovvio. Prima devi salvarla la pelle alla gente e poi glielo spieghi. E’ chiaro che devi essere un professionista serio e preparato. Ma non basta.

Eccomi arrivato. Parcheggio la macchina ed entro in sala d’attesa. Non c’è poi ‘sto gran casino.

Vado al triage dall’infermiera e mi qualifico. Cognome nome e gradi.

Al sentire la parola primario l’infermiera cambia espressione.

“Venga pure dentro che l’accompagno dal medico di guardia. Il suo collega primario se ne è appena andato, purtroppo.”

“Se non le dispiace vorrei prima vedere mio cognato”, dico in modo garbato.

“Ah certo. L’accompagno subito”.

Giuseppe è sdraiato su una barella in una stanza assieme ad altre cinque persone. Non c’è privacy e tutti cercano di parlare a bassa voce per non disturbare i vicini.

Simona mi vede e si illumina.

“Meno male che sei arrivato. Lui sta meglio. L’infermiera ci ha detto che stiamo aspettando che arrivi l’urologo.”

Giuseppe apre gli occhi e mi saluta. Mi faccio raccontare brevemente come è andata e come va adesso.
“Sto meglio ma ho ancora la sensazione di un peso sul fianco.”

“Adesso vado dal collega e poi torno”.

L’infermiera di prima mi fa entrare in sala visita.

Mi accoglie un dottore che deve avere solo qualche anno meno di me, mi fa vedere accertamenti ed esami fatti.

“Abbiamo escluso cose grosse. Ha un calcoletto in uretere destro con minima dilatazione a monte. Io gli avrei già fatto fare la Tac, ma le disposizioni interne sono che la deve richiedere l’urologo. Lo so che è una cazzata, ma dicono che ne richiediamo troppe, di Tac, e allora dalla direzione hanno escogitato questa trovata. Il problema è che l’urologo viene quando può”.

Sono sorpreso. Io non accetterei mai un’imposizione del genere. Cerco di sorvolare e chiedo.

“Lo hai spiegato a mio cognato ed a sua moglie?”.

Risposta secca: “Non ne ho avuto il tempo. Puoi farlo tu?”.

Il mio tono diventa meno cortese: “Certo che lo farò io. Così come suggerirò a mio cognato di auto dimettersi e lo porto da me a fare la TAC. ”

Torno nella sala delle barelle e spiego la situazione.

Giuseppe capisce e acconsente.

Entra il medico e farfuglia un patetico: “Mi dispiace”.

In macchina, diretti verso il mio ospedale, tra una smorfia di dolore misto a fastidio, Giuseppe comincia a parlare.

“Ci vorrebbe così poco per far funzionare le cose. Bastava che mi spiegassero invece di lasciarmi lì senza nessuna informazione. Tu mi capisci. Da quando hai fatto l’incidente e sei passato, come dici tu, dall’altra parte della barricata, sei diventato più empatico e comunicativo. Una bella legnata in testa probabilmente sarebbe servita anche al tuo collega. Perché non ti fai promotore di inserirla all’interno del percorso formativo universitario? La legnata in testa, intendo.”

Mi metto a sorridere.

Un master in pazientologia. Però, potrebbe essere davvero una buona idea…

L’AUTORE – Pierdante Piccioni, prima dell’incidente che gli ha cancellato dodici anni di vita (una lesione alla corteccia cerebrale), era direttore dell’Unità operativa di pronto soccorso dell’ospedale di Lodi, membro del direttivo dell’Academy of Emergency Medicine and Care, consulente del ministero della Salute oltre che coautore in quarantacinque lavori pubblicati su riviste scientifiche internazionali. Da febbraio 2015 a settembre 2016 è stato primario del pronto soccorso dell’ospedale di Codogno. Attualmente, all’interno del Dipartimento socio-sanitario dell’Asst di Lodi, ricopre l’incarico di responsabile del servizio «Integrazione ospedale – strutture sanitarie territoriali e appropriatezza della cronicità». È coautore del testo Medicina di emergenza-urgenza. Web Tutorial Manual (2017). Per Mondadori ha pubblicato, con Pierangelo Sapegno, Meno dodici (2016), in cui ha raccontato la sua esperienza. E ora torna in libreria con Pronto soccorso – Storie di un medico empatico, sempre scritto a quattro mani con Sapegno per Mondadori.

Pierdante Piccioni

IL NUOVO LIBRO – Per chi ci lavora, a contatto con il dolore delle persone, il pronto soccorso di un ospedale è una trincea quotidiana, una frontiera sospesa tra la malattia e la salvezza. Piccioni, però, non è un medico qualunque. Dopo i dodici anni inghiottiti in un buco nero, è ripartito con fatica, tra depressione e rabbia, e ha combattuto con tenacia per riconquistare la propria vita, i propri affetti, il proprio posto nel mondo. Lui, il dottor Amnesia, ora è di nuovo un primario di pronto soccorso. Ma adesso che è in prima linea, resta ancora un paziente costretto a fare i conti con la disabilità, ed è forse questo ad avergli fatto maturare una nuova empatia nei confronti di chi è malato: ne conosce le sofferenze, ne comprende il disagio dinanzi a quell’elefantiaco “emporio della salute” che è l’ospedale. Avendo vissuto tutto ciò sulla propria pelle, in ogni occasione, come racconta nel nuovo libro, cerca di comportarsi come avrebbe voluto che i medici avessero fatto con lui, una condizione che se da un lato lo premia, dall’altro emotivamente lo sfinisce.

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