“La forma del buio” è il nuovo thriller letterario di Mirko Zilahy, già autore di “È così che si uccide” – Su ilLibraio.it un capitolo dal romanzo

Negli angoli più reconditi e più belli di Roma prende vita La forma del buio, Longanesi, il nuovo thriller firmato da Mirko Zilahy che vede il ritorno delle indagini del Commissario Mancini, già comparso in È così che si uccide, libro d’esordio dell’autore (Longanesi).

Questa volta Mancini è sulle tracce di un killer che trasfigura le sue vittime in opere ispirate alla mitologia classica, dal gruppo del Laocoonte al Minotauro e alla Sirena, come un’orrida forma d’arte cadaverica. La stampa lo soprannomina “lo scultore” e nuove “opere” emergono nei posti più impensabili: dalla Galleria Borghese alla buia e incantata Casina delle Civette a villa Torlonia, dallo zoo abbandonato all’intrico dell’antica rete fognaria romana.

Il commissario, viene richiamato in servizio e gli si pone davanti una sfida che potrebbe essere la più complicata della sua carriera; ma Mancini non è più l’uomo che era un tempo, quando era il migliore in città a fare il suo mestiere, e la squadra, che lo ha sempre affiancato, non sa come salvarlo dal vuoto. Eppure raccoglie la sfida, che potrebbe non solo cambiare a sua carriera, ma anche la sua vita.

Collaboratore del Corriere della Sera, l’autore Mirko Zilahy, che ha conseguito il dottorato presso il Trinity College di Dublino, dove insegna lingua e letteratura italiana, torna in libreria con un nuovo thriller, letterario e avvincente.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it il quarto capitolo del libro:

Entrambi i serpenti,
abbracciati i piccoli corpi
dei due figli, li avvolgono e divorano
col morso le misere membra […].
Virgilio, Eneide

Nella pancia della Galleria Borghese, Bruno è disteso sul letto e tenta invano di prendere sonno. Sono due ore che ci prova e il mal di testa lo sta ammazzando. Si tira in piedi e raggiunge la finestra, la apre e respira. Fuori fa freddo. Ha una camera semplice, con un letto, un armadio e una mensola. L’angolo cottura e il bagnetto sono piccoli ma più che sufficienti per una persona.
La paga è buona, e lui non ha vizi. Sta ancora imparando a fare il guardiano notturno, ma è volenteroso. Certo, forse è un po’ lento e il direttore ogni tanto lo riprende, ma non gli importa. Torna a sedersi sul materasso, si passa la mano sulla fronte nella speranza che il cigolio scompaia, ed è allora che sente i sassolini stridere nel piazzale. Il rumore si prolunga, scompare, poi torna di nuovo. Bruno non ci pensa due volte, si veste, mette le scarpe ed esce dal suo piccolo alloggio. Apre il portone della Galleria Borghese, se lo chiude alle spalle con tre mandate e scende la scalinata che dà proprio sul piazzale.
E’ fuori.
Anche se è lì da poco, la facciata, il portico, le torri e i rilievi gli sono già familiari. La ghiaia è illuminata e in giro non c’è nessuno. Decide di avanzare verso lo zoo, duecento metri più giù. Nemmeno dello scricchiolio c’è più traccia, resta solo il dolore alla testa. Tenta di scuotersi e oltrepassa il cancello di ferro dell’Uccelliera. Avanza verso le fontane circolari che un tempo dissetavano i volatili che ora decorano rilievi e disegni come ombre di fantasmi variopinti. La cupola ospitava centinaia di specie, mentre fuori dalle gabbie stracolme vagavano i pavoni, vistosi scherzi barocchi, la vana policromia dei ventagli.
L’unico lampione acceso manda una luce fioca, arancione, che fa fatica a bucare la coltre delle piante.
Estrae la piccola torcia, l’accende e la punta sul muro vicino alle gabbie. La luce balena tra gli stucchi. Le foglie della siepe frusciano e l’aroma d’alloro si spande nell’aria. Poi qualcosa si solleva, ma Bruno non lo vede bene. Della figura in piedi intuisce solo la mano sollevata. E armata.
Bruno spalanca gli occhi e si volta mentre cresce il suono delle foglie travolte dalla sagoma che avanza. Un altro palpito nella scatola cranica e la giugulare s’ingrossa. Si allontana incespicando e sente la breccia morsa dietro di sé. Attraversa il giardino e supera la vasca annerita dal muschio. Deve raggiungere il piazzale e rientrare nel museo. Ma il rumore si avvicina e il panico sale. Vorrebbe voltarsi ma non lo fa. Continua la sua corsa scomposta, al rallentatore. I timpani ovattati, la certezza che l’inseguitore lo afferrerà e userà quella cosa che ha in mano contro di lui.

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Bruno scappa come se fosse la morte a inseguirlo, scappa e inciampa nei lacci delle scarpe lucide. Il ginocchio cede. Scappa, si ripete, e anche se della voce non c’è traccia gli pare che quella parola gli esploda come un tuono nelle orecchie. Scuote la testa, boccheggia e corre. Affronta le scale ansimando. Raggiunge il portone, ficca la mano in tasca e pesca le chiavi. Finalmente si volta, ma è tutto confuso. La chiave balbetta nella toppa e s’infila. Bruno spinge, entra e chiude proprio mentre qualcosa si abbatte sull’altro lato del portone.
E’ dentro. E’ salvo. Si volta e poggia la schiena al legno. Respira. Fuori, solo il silenzio.
All’interno della Galleria, una luce discreta riempie l’atrio e avvolge il bancone della reception oltre il quale si spalanca il salone d’ingresso: la volta affrescata e un mosaico sul pavimento.
Sono tre mesi che Bruno lavora lì. Durante il giorno è un bell’impiego, in mezzo alla gente. Ma di notte quegli spazi si trasformano, le statue si animano, gli affreschi sussurrano nella lingua dei morti.
Sulla sinistra c’è il portoncino del suo alloggio. Entra e chiude a chiave. La testa pulsa forte e nelle orecchie il sangue pompa senza sosta. Si affaccia alla finestra, quella sbarrata, e scruta fuori sperando che non ci sia più nessuno, sperando che chiunque fosse se ne sia andato. Si gira e raggiunge il bagno, apre l’acqua e si lava il viso. Chiude il rubinetto e si avvicina al letto. Si siede sulle lenzuola, il cuore ha iniziato a rallentare e la respirazione torna normale. Solo le orecchie continuano a pulsare.
Raccoglie la bottiglia d’acqua vicino al letto, beve un sorso e si sdraia, posa la testa sul cuscino e si abbandona.
Deve essersi addormentato perche´ gli occhi frugano stupiti l’oscurità della stanza.E’ frastornato ma la testa non gli fa più male.
Si mette in ascolto, ha paura, prova uno strano senso di oppressione.
Quanto ha dormito? Avanza piano verso la porta. La apre e si ritrova immerso nella penombra. Di solito, la notte il
museo è rischiarato dalle luci al neon che servono per le riprese dalle telecamere.
Ma stanotte no.
Il sistema deve essere andato in blocco. Non è la prima volta che accade. Due giorni prima un corvo ha spezzato il filo elettrico sul tetto della Galleria. Il tecnico lo ha sistemato alla meglio in attesa di sostituirlo. Ecco cosa è successo, si dice entrando nel salone d’ingresso. Il portone è ancora chiuso, ma in quel momento una vibrazione colpisce il timpano di Bruno. Un rumore secco da qualche parte, come di una porta che sbatte. Il panico lo investe a folate, e lui corre giù per le scale fino al piano del ristorante, dove si trova la libreria.
E il telefono.
Stacca la cornetta e compone il 113. Si asciuga il sudore dalla fronte e si guarda attorno. La linea non dà segni di vita. Non c’è corrente.
Risale in fretta. La Galleria è silenziosa, abitata dalle ombre delle opere. Bruno ama quei quadri, quelle statue, anche se gli fanno paura. Durante le ronde notturne, quando attraversa le sale illuminate a giorno, si aggrappa all’eco dei suoi tacchi per non sentirsi perso. Ora invece scivola sulle punte dei piedi e controlla sala per sala, aiutato dalla luce dei lampioni all’esterno.
Dopo Paolina Borghese incontra la tela del Caravaggio di san Girolamo col teschio sullo scrittoio. Bruno lancia un’occhiata e tira dritto. Non riesce a guardarle, quelle orbite cave. Si affretta verso la sala in cui si trova il pezzo più spaventoso, Apollo e Dafne del Bernini. La gente passa ore a contemplarlo ma lui non sopporta quello spettacolo immobile e cangiante. La trasformazione colta in divenire, eppure inchiodata dagli atomi della pietra.
L’orrore della metamorfosi.
Ancora non albeggia ma fuori dal giardino segreto di Villa Borghese, cinto da mura alte tre metri, si spande il rumore del traffico che arranca sul Muro Torto. All’interno, le fontane si preparano ai giochi d’acqua nelle vasche petrose. Tra le sale preziose alla Galleria Borghese regna il silenzio.

Bruno raggiunge il primo piano. Entra nell’atrio seguendo la pianta quadrata in senso orario, come fanno i turisti. Scivola accanto alle logge di Lanfranco e dell’Aurora. Neppure qui c’è nulla. Che stupido, i rumori venivano dal tetto, dove nidificano i gabbiani, si dice mentre accede all’ultima sala. Quella di Psiche. La volta è affrescata dal Novelli con le scene dall’Asino d’oro, lungo il perimetro della stanza ci sono sei camini ornamentali e al centro della parete ovest la tela dell’Amor sacro e Amor profano di Tiziano. Al centro dell’ambiente la statua del Ritratto
di Fanciullo sul piedistallo.
Maè di fronte al fanciullo, sopra il pavimento lucido d’ocra, che Bruno scopre un’opera nuova.
Si ferma, incredulo. Fissa il disegno scomposto delle linee, le membra tentacolari. Un orrido groviglio di arti lo osserva.
Si muove?
Ha appena il tempo di chiederselo prima che un colpo potente gli sfondi il cranio.

(Continua in libreria…)

Fotografia header: Zilahy (foto di Laura Ceccacci)

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