“Nella Bibbia ho ritrovato me stesso e la speranza che non finisca tutto qui”. Nel suo nuovo libro, “Il Dio dei nostri padri” (già bestseller), il giornalista e scrittore Aldo Cazzullo racconta il grande “romanzo” biblico nel quale, dice intervistato da ilLibraio.it, “possiamo riconoscerci tutti, perché racconta passioni universali con le donne grandi protagoniste”. Tanti i temi affrontati, dai conflitti di questi anni all’antisemitismo (“La storia è piena di guerre condotte in nome di Dio? Viene usato e strumentalizzato per fare il male…”) allo stato del giornalismo (“Fino a dieci, quindici anni fa, c’era molto pessimismo, ora invece…”), passando per le nuove generazioni: “Viviamo una vita in cui la dimensione della profondità è scomparsa. Il passato non esiste, il futuro non esiste, tutto è un eterno presente. La formazione dei ragazzi è completamente affidata alla rete, ma così si resta in superficie…”
Nessuno, o quasi, legge più la Bibbia. Essa, però, è ovunque. Nei testi dei grandi cantautori, da Leonard Cohen a Bob Dylan, da De André a Bruce Springsteen. Lungo i passi di Tex Willer, nelle liti dei Simpson, lungo le strisce della Mafalda di Quino, nel frastuono di Star Wars o nelle trame di Stephen King… Una presenza febbrile del “grande codice” occidentale non solo nella cultura alta ma anche in quella nazional-popolare.
“Sicuramente è un capolavoro letterario“, dice Aldo Cazzullo, giornalista e scrittore, vicedirettore del Corriere della Sera, che nel libro Il Dio dei nostri padri (HarperCollins Italia), destinato a diventare un bestseller, con decine di migliaia di copie vendute in poche settimane, racconta il “grande romanzo della Bibbia” con le sue ben note doti affabulatorie e in un continuo, intrigante ping-pong tra storia e attualità, tempo ed eterno, passato, presente e futuro.
“La Bibbia è come l’animo umano”, spiega intervistato da ilLibraio.it, “ci sono la vita e la morte, l’odio e l’amore, il bene e il male, la disillusione e la speranza, la guerra e la pace. Il mio obiettivo era raccontarla restituendone la profondità come ho fatto con la Commedia di Dante. Alcuni passaggi sono stranianti e persino sfidanti perché questo testo, sacro per l’Ebraismo e il Cristianesimo e importante per l’Islam, è intriso di violenze, massacri, incesti, stupri, tradimenti, storie d’amore. È un libro in cui tutti possiamo riconoscerci, perché racconta passioni universali”.
Perché proprio la Bibbia?
“L’ho riletta al capezzale di mio padre. Era un sabato sera quando negli ospedali, un po’ come negli alberghi delle settimane bianche, c’è un ricambio. Chi non sta malissimo torna a casa per far posto ai nuovi arrivati”.
Si è soffermato su un brano in particolare?
“Quello, poco conosciuto, in cui Dio stabilisce un’alleanza con Abramo, il quale chiede un segno a Dio che accetta di darglielo. Il Patriarca cade quasi in trance, in uno stato di torpore, proprio come accade a chi veglia un malato in ospedale dove non si dorme mai del tutto. Dio passa nell’oscurità della notte e si manifesta come un fuoco promettendo ad Abramo, che è vecchio, non ha figli e una moglie anziana, Sara, che la sua discendenza sarà più numerosa delle stelle del cielo e che in lui saranno benedette tutte le nazioni della terra. Abramo riceve una missione, si fida e parte per la terra promessa”.
Perché l’ha colpita?
“Leggendo questa pagina così evocativa, di una potenza straordinaria, mi sembrava fosse possibile, se non penetrare e comprendere il mistero, almeno accettarlo. Che la vita non sia tutta qui. Che ci sia una speranza. Che sia possibile ritrovare le persone amate anche dopo la morte”.
Scrivendo questo libro ha ritrovato la fede?
“No, ma ho ritrovato mio padre e il mondo in cui sono cresciuto. Per i nostri genitori l’esistenza di Dio e dell’aldilà era una certezza, come il fatto che il sole tramonta e risorge. Non sono ateo, ho ricevuto una formazione cattolica, ma non sono certo di tutto questo. Riconosco, però, che qualsiasi speranza in una vita dopo la morte non può prescindere dall’esistenza di un Dio. E non di un dio generico, ma di un Dio misericordioso, che si piega sulle nostre povere vite e si prende cura di noi”.
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Oggi non è demodé, o poco mainstream, scrivere un libro sulla Bibbia?
“Del mainstream non me n’è mai importato tanto. Siamo in una società molto secolarizzata, è vero, parlare di Bibbia può essere considerato noioso. Qualcuno, per esempio, mi ha detto che il titolo è patriarcale”.
E lei?
“Ho risposto che non è assolutamente così. Quando nella Bibbia Dio si manifesta spesso si presenta così: ‘Io sono il Dio dei tuoi padri’. Tutti discendiamo da un uomo e una donna, Adamo ed Eva, che Dio pone nel giardino dell’Eden, il paradiso terrestre. La Bibbia è anche un libro profondamente matriarcale. Eva, per esempio, è una figura straordinaria, con il suo coraggio e la sua curiosità disobbedisce a Dio e lo fa infuriare ma scaraventa l’uomo nel vortice della storia, donando al genere umano la via della libertà, difficile, talvolta dolorosa ma anche colma di opportunità e felicità. È una donna, Eva, a dare all’uomo una storia, e una vita. Se fossimo rimasti nel paradiso terrestre ci saremmo annoiati a morte. Per non parlare di altre figure femminili come Susanna, che resiste ai suoi stalker, Rut, Ester”.
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Lei sostiene che siamo la prima generazione di agnostici. Eppure, in questi anni, sono tantissimi i libri scritti da laici che hanno per tema la fede. Come se lo spiega? È tornato Dio?
“Non se n’è mai andato. Lo abbiamo visto durante la pandemia, quando era chiaro che c’era bisogno di una speranza alla quale ci siamo tutti aggrappati. Mi viene in mente il passo del Vangelo di Giovanni in cui Gesù dice ai suoi discepoli: ‘Volete andarvene anche voi?’. E Pietro risponde, a nome di tutti: ‘Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna’. Noi viviamo una vita in cui la dimensione della profondità è scomparsa. Il passato non esiste, il futuro non esiste, tutto è un eterno presente. La formazione delle nuove generazioni è completamente affidata alla rete, per i nativi digitali lo smartphone è tutto. Però si resta in superficie, non si approfondisce nulla. La Bibbia ti porta in mille direzioni, è piena di dettagli, episodi curiosi come quando Satana e Dio scommettono su Giobbe come i due vecchietti di Una poltrona per due. Un altro particolare che mi colpisce è che Dio si rivolge sempre a persone fragili”.
Ad esempio?
“Abramo e Sara sono anziani e senza figli, Isacco è cieco, Mosè balbuziente, Giacobbe è sciancato dopo la lotta con l’angelo misterioso, Davide è un pastorello che affronta un gigante, Giuditta è una vedova che uccide Oloferne, il temibile condottiero nemico”.
Tra giustizia, libertà e speranza cosa prevale nella Bibbia?
“Tutti e tre. La libertà è una possibilità offerta all’uomo. L’idea di giustizia è una costante e non è vero, come si dice spesso, che il Dio dell’Antico Testamento è un Dio cattivo e vendicativo in contrapposizione a quello buono e misericordioso del Nuovo. Se vedi il tuo nemico il cui asino è stramazzato al suolo, dice il Deuteronomio, non fare finta di nulla ma aiutalo a rialzarsi. C’è la speranza, potente, della risurrezione con il profeta Ezechiele che si trova in una valle piena di ossa. Mentre le ossa riprendono vita, si alza la voce di Dio che dice: ‘Vi farò risorgere dai vostri sepolcri e voi rivivrete. L’ho detto e lo farò’. C’è, altrettanto potente, la speranza della giustizia che è immortale, come ricorda il libro della Sapienza: ‘Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà. Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé: li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come un olocausto. Nel giorno del loro giudizio risplenderanno; come scintille nella stoppia’”.
La Bibbia è attuale?
“Così tanto da essere eterna. I conflitti di oggi in Medio Oriente hanno anche una radice biblica. La parola Palestina deriva dai Filistei, anche se geneticamente non sono gli antenati dei palestinesi perché erano una popolazione di origine greca e non semita, mentre i palestinesi, che sono arabi, sì. Nella Bibbia l’esercito egiziano del faraone insegue gli Ebrei nel deserto del Sinai e viene sommerso nel Mar Rosso. Nel 1967 e nel ‘73 ci sono stati due conflitti nello stesso luogo tra l’esercito israeliano e quello egiziano. Credo che non esista nella storia un caso di due popoli che si chiamano allo stesso modo e che si confrontano negli stessi luoghi a oltre tremila anni di distanza”.
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Dio, nel Decalogo, comanda di non uccidere. Ma la storia è piena di guerre condotte in nome di Dio.
“Dio viene usato e strumentalizzato per fare il male. ‘Non nominare il nome di Dio invano’ non significa solamente non bestemmiare, vuol dire non usare Dio per i propri fini ideologici, non uccidere in suo nome. ‘Deus lo vult’, gridavano i crociati, ‘Gott mit uns’ (‘Dio è con noi’), c’era scritto sulle uniformi dei soldati nazisti, ‘Allahu Akbar’, gridano i terroristi Islamici. Non si uccide in nome di Dio, chi lo fa vìola un comandamento biblico”.
Il conflitto in Medio Oriente ha acuito l’antisemitismo in Occidente, anche nelle università. Cosa ne pensa?
“Un conto è criticare Israele e la politica di Netanyahu, un altro sono i cartelli che insultano Liliana Segre. Questo è antisemitismo allo stato puro. Parte delle nuove generazioni ha un approccio alla questione mediorientale che è molto diverso dal nostro. Noi abbiamo visto i film sulla Shoah, letto le testimonianze dei sopravvissuti come Primo Levi, compreso e accettato che la nascita dello stato di Israele fosse anche una forma di risarcimento per la persecuzione nazista, ma in quella terra ci sono anche gli arabi. Ho la sensazione che una parte dei ragazzi abbia meno consapevolezza di tutto questo. Un conto è dire che i palestinesi hanno diritto a uno stato, un altro è dire ‘From the river to the sea, Palestine will be free’, perché in mezzo c’è Israele. Israele ha reagito al 7 ottobre come Hamas sperava reagisse. E ora ne paghiamo le conseguenze”.
È preoccupato?
“Vedo una brutalità allarmante come la gioia perversa del vedere il nemico morto. Un conto è uccidere Nasrallah (leader di Hezbollah, ndr), un altro è gioire in pubblico per la sua morte. Una democrazia che fa la guerra dovrebbe farla in modo diverso da dittature e teocrazie”.
Come sta il giornalismo?
“Fino a dieci, quindici anni fa c’era molto pessimismo. Ricordo che Rcs (l’editore del Corriere della Sera, ndr), sotto la precedente gestione, acquisì la piattaforma di YouReporter, come per dire che i giornalisti non servivano più ed era sufficiente postare in rete video fatti con il proprio smartphone da chiunque andasse in giro. Poi c’è stata una fase di ripresa di fiducia. In Rcs, Urbano Cairo ha rimesso i conti a posto, rilanciato gli abbonamenti e la presenza sui social. La svolta è stata la pandemia, quando la gente ha avuto paura di morire. Molti hanno reagito diventando No Vax, altri hanno cercato di informarsi, leggendo di più i giornali che, nel mare magnum della rete, offrono notizie vere, precise, accurate”.
E adesso?
“Occorre una riflessione. Internet ti fa sapere in tempo reale cosa i lettori prediligono. I pezzi più letti sono lo sport, la cronaca, le interviste ai personaggi popolari. Questo non vuol dire che non bisogna più fare inchieste, cultura, reportage dall’estero, approfondimenti. Bisogna venire incontro al pubblico senza però snaturarsi. È un equilibrio non facile da tenere”.
L’intervista perfetta?
“Non esiste. Più l’intervistatore si fa da parte e fa parlare l’intervistato, meglio è”.
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