La protagonista del secondo romanzo di Alice Urciuolo, “La verità che ci riguarda”, cambia di continuo la pronuncia del suo nome e decide quando concedere stralci di se stessa, decide quando nascondersi dietro un nuovo accento. La scrittrice e sceneggiatrice, già autrice di “Adorazione”, con ilLibraio.it approfondisce il tema della dipendenza affettiva, e delle identità che ci diamo e lasciamo che siano gli altri a darci: “Se non si è stati amati nel modo giusto, è impossibile anche saper amare”. È anche una storia di figlie e di madri, che condividono un dolore, perché, come dice l’autrice, “ci sono traumi che lasciano come dei marcatori nel dna”. Le verità che ci riguardano sono spesso anche le più difficili da accettare. Nell’intervista si parla anche di “relazioni tossiche”: “Il problema sta anche nel come è raccontata la passione amorosa nei libri, nei film e nelle serie che, dietro la storia romantica, nascondono la manipolazione. Ancora si scambia il concetto di possessività con quello di amore, e quando si cominciano a identificare i meccanismi che non funzionano si rischia poi di cadere dal lato opposto, quello della banalizzazione, per cui diventano tutti narcisisti, tutti tossici…”

Per tutto il tempo dell’intervista, Alice Urciuolo passa con scioltezza da Milena a Mìlena. La protagonista del suo secondo romanzo, La verità che ci riguarda, uscito per 66thand2nd, lo fa di continuo: cambia la pronuncia del suo nome e decide quando concedere stralci di se stessa, decide quando nascondersi dietro un nuovo accento. L’identità che ci diamo e quella che ci danno gli altri è al centro del libro di Urciuolo, che arriva tre anni dopo Adorazione, il suo esordio entrato subito in dozzina allo Strega e che presto diventerà una serie su Netflix.

La verità che ci riguarda parla di una madre e di una figlia che condividono un dolore uguale, per quanto possa sembrare lontanissimo. La dipendenza affettiva le scava entrambe da dentro: una si rifugia in un culto, l’altra in una relazione con un uomo più grande, insicuro, manipolatore. Ma qual è la differenza tra le promesse di una religione assoluta e quelle di un amore malsano? È sì un romanzo sulle verità che ci riguardano, come recita il titolo, ma anche su quelle che ci raccontiamo.

Non è un caso che la protagonista si chiami Milena: Urciuolo racconta di una propria passione viscerale per l’epistolario di Franz Kafka Lettere a Milena (pronuncia: Mìlena). Ripreso in mano anni dopo, si rende conto che ci sono dei passaggi di quelle lettere che una volta le sembravano rappresentare il punto più alto dell’amore tra due persone, e che ora la mettono a disagio, la angosciano: “Le Lettere a Milena sono state una folgorazione, ora non direi che sono lettere d’amore”.

Da lì, il seme di un’idea: “Non siamo capaci di riconoscere le relazioni storte da quelle che non lo sono”.

Il libro diventa cruciale anche per la Milena, a volte Mìlena, del romanzo di Urciuolo: darsi un nuovo nome le concede di distaccarsi da quello che vive, riscrivere un’altra storia. Permettersi di vivere un amore che, una volta, riletto, si può rivelare qualcos’altro è un passaggio fondamentale da fare. Come rendersi conto che nell’epistolario la voce di Mìlena non c’è mai.

La verità che ci riguarda alice urciolo

Come si sente, al secondo romanzo?
“Sono molto più serena. Con Adorazione non avevo realizzato subito, mi sentivo straniata, come non fosse reale. L’avevo scritto di getto, mentre questo ha avuto una gestazione con un passo più lento. Quest’uscita è emozionante, sono più felice: è un sentimento più sostenibile”.

Come nasce La verità che ci riguarda? In un certo senso, continua l’esplorazione dell’ “amare male” iniziata con Adorazione?
“I due libri per me sono legati. Mentre approfondivo il tema, Milena si era già delineata come protagonista del romanzo dopo. Sapevo che volevo scrivere di dipendenza affettiva. Poi è arrivata la madre di Milena, che si avvicina a un culto, e ho realizzato che facevano parte entrambe della stessa storia. Quando pensiamo ai culti abbiamo le immagini che ci arrivano dai racconti degli Stati Uniti: persone che si fanno bruciare, simbolismi: ma in Italia ce ne sono tantissimi di insospettabili, anche legati alla religione cattolica, e ne fanno parte persone del quotidiano. Professionisti, famiglie che potrebbero essere i nostri vicini di casa, gente che ha anche una vita sociale. Ho scoperto di fatto i meccanismi psicologici che mette in atto una setta sono gli stessi di una dipendenza affettiva: prima ti fa sentire importante, e poi arriva il distacco, che ti fa sentire sbagliato, ti chiede nuove prove per dimostrare di poter tornare a essere il più importante”.

Dio è morto, si diceva nel secolo scorso. Non è morto il nostro bisogno di essere amati ancora prima che amare?
“Assolutamente no. Ma se non si è stati amati nel modo giusto, o se non si sente di essere stati amati nel modo in cui si aveva bisogno di essere amati, è impossibile anche saper amare. Mancano proprio gli strumenti giusti per sapere cos’è l’amore e come accoglierlo nel quotidiano”.

Quando Milena utilizza il termine “relazione tossica”, l’amica sbuffa per il termine. Adesso è molto diffuso, specialmente su social come TikTok dove si tende a ipersemplificare per diffondere i concetti. Lo stiamo svuotando di significato?
“Il problema è ancora prima, su come è stata raccontata la passione amorosa nei libri, nei film, nelle serie che dietro la storia romantica nascondono la manipolazione. Ancora si scambia il concetto di possessività con quello di amore, e quando si cominciano a identificare i meccanismi che non funzionano si rischia poi di cadere dal lato opposto, quello della banalizzazione, per cui diventano tutti narcisisti, tutti tossici. È che ci manca proprio un alfabeto dei sentimenti”.

Una cosa che ritorna è la genetica del dolore: quello che viviamo viene dalle nostri madri, ma anche dalle nostre nonne, e potenzialmente potrebbe arrivare alle nostre figlie e alle nostri nipoti.
“Questo è un altro tema che mi ha affascinato molto. Non è una novità: esiste un’eredità fatta di posture, atteggiamenti, ambienti che si assorbono in modo inconsapevole, e ora ci sono studi che mostrano che c’è effettivamente un cambiamento genetico. Ci sono traumi che lasciano come dei marcatori nel dna. Chi ha antenati che hanno vissuto eventi fortemente traumatici, come è stato visto ad esempio nei discendenti della Shoah, ha ereditato quel dolore in qualche forma. Quando un trauma si passa da madre e figlia, come nel romanzo, ne diventiamo più consapevoli, è in grado di emergere e di poter essere riconosciuto”.

Adorazione, Alice Urciuolo

Ci sono tante madri, tra le pagine. Non per forza di sangue: la cura va oltre i legami strettamente famigliari?
“Per Milena una madre sola non basta. Le donne nella storia sono fondamentali. Ognuna di loro a suo modo per lei è una madre, anche se magari hanno rifiutato il concetto di maternità in senso stretto. Penso che tutte siano prima o poi, la madre giusta per qualcuno”.

Nel romanzo si parla anche di aborto. Un argomento che spesso alcune serie o film scelgono di bypassare: lo citano come possibilità, ma alla fine vincono sempre le altre opzioni. È anche sceneggiatrice (tra le altre cose, della serie Skam, ndr), come si normalizza anche nelle narrazioni di finzione?
“Ci sono storie in cui le esigenze del personaggio, o della trama, portano per forza a evitare l’aborto, ma in generale è ancora un tabù, un tema che polarizza il dibattito. Per me la cosa importante è evitare il “bianco e nero”, ma sottolineare che è una scelta che si fa per se stesse. Farsi domande, ascoltarsi, non è una contraddizione: questo deve venire dalla persona che fisicamente sta vivendo quella situazione.
Inoltre, quando si legge di aborto si parla della difficoltà di accesso, che sicuramente in Italia c’è: ma ci sono anche i professionisti che fanno il loro mestiere, e questo penso vada ricordato”.

Il rapporto con il corpo è centrale. L’andamento delle mestruazioni, il controllo sul cibo, il distacco dai segnali che il corpo ci dà. Come l’hai esplorato?
“Ci tenevo tantissimo a scrivere questo romanzo in prima persona, a differenza di Adorazione, per questo. Tante cose di Milena possono essere raccontate solo in prima persona, penso ad esempio alle mestruazioni e a come le vive lei. Si può chiedere a tantissime ragazze, e ognuna avrà una cosa solo sua da raccontare sul proprio corpo, e sul proprio rapporto con il corpo”.

Dall’interno all’esterno. Il romanzo si muove tra Roma e Vallecorsa, in Ciociaria. Com’è il tuo rapporto con la città e con il paese?
“Conosco molto bene la Ciociaria, perché parte della famiglia di mia madre è di Vallecorsa. Sono cresciuta in provincia di Latina, e come tanti da questi posti volevo scappare. Ci si sente senza opportunità, chiusi. Poi in quei posti sono tornata e ci ho costruito un rapporto diverso, ora mi ci sento molto più a casa. Con Roma è amore e odio, a un certo punto quasi non la sopportavo più. La sensazione è che non ci sia un posto che riesco a considerare una casa”.

Qual è la verità che ci riguarda più difficile da affrontare?
“Vedere i propri lati d’ombra, le cose malvagie. Sembra difficile immaginare Milena in questo modo, ma per liberarsi ha bisogno di non mettere più in atto dei comportamenti negativi. Riconoscere che anche in queste situazioni dolorose, dove si è la parte ferita, noi possiamo avere un ruolo è un esercizio di consapevolezza che ci dà anche gli strumenti per uscirne, ci ridà una titolarità sulla nostra vita, ci fa agire”.

È uscita la notizia che Adorazione diventerà una serie per Netflix. Chiudiamo come abbiamo iniziato: come si sente?
“Sono felicissima. Non l’ho scritta io: è stata una decisione difficile, ma proprio perché è il mio lavoro so quanto da un mezzo all’altro si debba cambiare, aggiustare, e ho preferito lasciare questo compito a qualcun altro, non sarei distaccata come quando lavoro all’adattamento di un altro autore. La guarderò da spettatrice, e sono emozionatissima”.

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