“Avevo 21 anni e il mio mondo si era appena capovolto”. Cinque anni fa, il manager di Monte dei Paschi di Siena, David Rossi, viene trovato morto in vicolo Monte Pio, sotto la finestra del suo ufficio, aperta. Il caso viene archiviato come suicidio. Cinque anni dopo la figlia Carolina Orlandi, venticinque anni e una forza di volontà che non si arresta, racconta la sua versione dei fatti nel libro d’esordio “Se tu potessi vedermi ora”. Su ilLibraio.it l’intervista all’autrice, che racconta: “Ho fatto un grande compromesso con me stessa: sei pronta a mettere in piazza tutti i tuoi ricordi più cari, a raccontare la tua vita, ad affrontare le critiche verso di te e verso di lui? Ha vinto l’urgenza di parlare e l’unico modo per creare consapevolezza negli altri era dargli la possibilità di immedesimarsi con me, con la nostra famiglia”

Cinque anni fa il manager responsabile dell’area comunicazione di Monte dei Paschi, David Rossi, viene trovato morto dopo essere precipitato dalla finestra del suo ufficio, a Siena. Il caso è archiviato immediatamente come suicidio, ma troppe cose non tornano.

Sono tante le persone che si chiedono cosa sia successo quella sera, in vicolo Monte Pio. Ma a chiederselo più di tutti è Carolina Orlandi (foto di Marcello Fadda), che a soli ventun anni si è ritrovata catapultata a forza nel mondo degli adulti, dei manager e della tv, dei politici e delle banche, e ha visto la morte del suo ‘secondo’ papà (è infatti figlia di Antonella Tognazzi, moglie di David) sulle copertine di tutti i giornali. Un mondo fatto di persone che non danno retta a una ragazzina, che tra cortei, veglie, inchieste, ha smosso mari e monti per cercare di arrivare alla verità.

A cinque anni dalla tragedia, Carolina Orlandi racconta la sua versione dei fatti in Se tu potessi vedermi ora (Mondadori Strade blu), un memoir che guarda alla vicenda con occhio doloroso, senza mai cadere nella rabbia o nella pietà. “Il suicidio non si accetta. Non si convive con la consapevolezza che tutto il dolore è stato causato da una scelta volontaria. Non si chiude occhio sapendo che si sarebbe potuto evitare, ma che ormai è troppo tardi”, scrive nel suo libro d’esordio.

carolina orlandi se tu potessi vedermi ora

In un’intervista di Teresa Ciabatti su La Lettura dello scorso 25 febbraio, Orlandi mostra ai lettori alcuni dei punti, toccati nel romanzo, dei giorni antecedenti al fatto – i tagli sull’avambraccio di David, notate da Carolina la sera prima della tragedia, il tentativo spaventoso del padre che cerca di avvisare la figlia della presenza, in casa, di cimici – e del rapporto con la madre Antonella in quei giorni, diventati poi mesi, di dolore (“Lei si è lasciata andare, non mangiava più. Così io m’inventavo cose piccole per riabituarla al cibo. Almeno per un mese abbiamo mangiato solo prosciutto crudo tagliato a cubetti, le dicevo che non era necessario masticarlo, bastava che tenesse in bocca i cubetti per farli sciogliere”).

ilLibraio.it ha intervistato l’autrice, che racconta ai lettori il suo percorso di crescita – come persona e come scrittrice – che l’ha portata a scrivere il suo libro.

Orlandi, partiamo dagli aspetti formali del suo libro. Ha un titolo particolare, quasi un’invocazione, e in copertina vediamo, in basso a destra, la firma “David Rossi”. Quali sono stati i motivi che l’hanno spinta verso queste scelte?
“La copertina del libro è proprio un quadro di David, che avevo appeso in camera. Era sempre stato uno dei miei preferiti, era inquietante e magnetico insieme, ma non ne avevo mai parlato con lui. Lo aveva intitolato Gli incubi ventidue anni prima (il quadro è del 1991) che questi entrassero in scena nella nostra vita. Dopo il 6 marzo 2013, infatti, quel quadro si è trasformato ai miei occhi, diventando il simbolo di ciò che è successo: una finestra con davanzale, che incornicia perfettamente tanti mostri con un sorriso beffardo e maligno. Per David quei mostriciattoli erano ‘gli incubi’, per me sono coloro che gli hanno fatto del male”.

E il titolo?
“Scegliere il titolo è stato più complicato. Ce ne voleva uno che lasciasse intravedere la natura intima del libro e al tempo stesso nessuna parola sembrava abbastanza adatta. Alla fine la scelta è ricaduta su questa frase (Se tu potessi vedermi ora), che non è solo il titolo di una canzone che ascoltavo spesso nei mesi successivi alla sua morte (The Script, If you could see me now, ndr), ma sembrava venir fuori da ognuna delle pagine. Ha vinto la spontaneità su tutte le mie pretese altisonanti”.

Vuole dirci qualcosa dell’esergo (Che tutto il tuo fango, tutte le tue scorie possano fondersi nel fuoco che è in te. Finché il fuoco non sia altro che luce!…Nient’altro che luce!)?
“In un certo senso anche l’esergo me l’ha suggerito David. Nella sua libreria ho trovato l’Antologia di Spoon River con ancora la sua matita dentro. Mi sono portata con me quel libro per tanti anni senza trovare il coraggio di aprirlo: temevo che la sua grafia, i suoi appunti potessero in qualche modo intaccare la mia corazza. Quando mi sono ritrovata a dover scegliere l’esergo, ho sentito che non avrei potuto che trovarlo là dentro. E così è stato, era l’unica parte della poesia cerchiata.”

Nel libro parte a raccontare un episodio avvenuto la sera prima del 6 marzo. Come ricorda David, nell’ultimo periodo? Cos’era successo?
“Dal 19 febbraio, quindici giorni prima, era cambiato. La banca era nel pieno dello scandalo, dal quale non si sarebbe più ripresa; David non era indagato e non si capacitava del perché fossero arrivati a perquisire la nostra casa. Avevamo scambiato il suo atteggiamento per paranoia, preoccupazione eccessiva e, solo la sera prima, il 5 marzo, ho capito che invece il pericolo era reale: la sua non era angoscia ingiustificata, ma terrore. David era terribilmente spaventato da qualcosa che non poteva dirci. L’ho capito dai suoi occhi mentre mi scriveva su dei fogli di carta che non dovevo parlare con nessuno di lui e del fatto che avevamo le cimici in casa. Non abbiamo fatto in tempo a capire quanto la situazione fosse pericolosa”.

La Procura ha presto archiviato il caso come suicidio. Quando ha cominciato a pensare che, forse, la situazione poteva essere diversa? Quali sono stati gli elementi che hanno poi riportato alla riapertura delle indagini?
“Nei primi mesi mi sono fidata della Procura, della verità ufficiale. Mi dicevo ‘nessun parente di un suicida ha mai dichiarato di aspettarselo, perché nel nostro caso dovrebbe essere diverso?’. Ma appena abbiamo acquisito i materiali dissequestrati, qualche mese dopo (le foto, il video della telecamera di sorveglianza, le sue mail), gli elementi sconcertanti hanno iniziato a saltarci agli occhi, uno dopo l’altro (la dinamica della caduta, l’orologio che cade 33 minuti dopo il corpo, le ferite nella parte anteriore del corpo non compatibili con la caduta), e allora ho iniziato a chiedermi perché la Procura non voleva nemmeno fare l’autopsia? Perché non sono stati acquisiti i filmati delle tante telecamere di sorveglianza interne alla banca? Perché i vestiti non sono stati messi sotto sequestro? Perché non sono state acquisite le celle telefoniche?”.

Scrivere un memoir comporta una serie di effetti collaterali, tra cui il parlare espressamente di persone esistenti. Lei crede che coloro che erano coinvolti nei fatti abbiano preso meno sul serio le sue indagini a causa della sua giovane età?
“Le indagini vere e proprie, all’inizio, sono state fatte dal nostro avvocato Luca Goracci, dal nostro perito di parte Luca Scarselli e da mia zia, Chiara Benedetti. Loro mi aggiornavano su tutto. Avevo 21 anni e il mio mondo si era appena capovolto, non sarei stata in grado di gestire determinati passaggi. Dopo qualche anno ho iniziato a metterci la faccia per raccontare tutto questo, perché ci siamo resi conto quanto l’influenza dei media e la narrazione fossero potenti per far smuovere le cose. E allora ho fatto un grande compromesso con me stessa: sei pronta a mettere in piazza tutti i tuoi ricordi più cari, a raccontare la tua vita, ad affrontare le critiche verso di te e verso di lui? Ha vinto l’urgenza di parlare e l’unico modo per creare consapevolezza negli altri era dargli la possibilità di immedesimarsi con me, con la nostra famiglia”.

Ha letto memoir, prima di scrivere la sua storia? Vuole consigliarne qualcuno?
“Con la mia vita sono cambiate anche le letture. Avevo bisogno di conoscere persone che ce l’avevano fatta, se non altro a superare il lutto di una figura genitoriale di grande spessore, scrivendo, raccontando. E allora ho divorato Spingendo la notte più in là di Mario Calabresi dove leggevo ‘Non era una giornata normale quando venne ucciso, nel senso che non era inaspettata. Da molto tempo nessun giorno era più normale: i presagi peggiori, le paure improvvise, le angosce e perfino i pianti erano diventati compagni di strada dei miei genitori’. E ancora Benedetta Tobagi, figlia di Walter, con il suo Come mi batte forte il tuo cuore. Più tardi ho ritrovato qualcosa di mio anche ne La più amata di Teresa Ciabatti. Ricercavo non solo casi di giustizia come il nostro, ma anche parole di figli e figlie che raccontano il padre e il paterno in generale”.

Chi era Carolina Orlandi, prima del 6 marzo 2013? Come ha influito la personalità di David Rossi nella scelta del suo percorso accademico?
“Carolina era una ragazza piena di speranze e ambizioni che voleva scrivere, da sempre. Voleva diventare giornalista di viaggi, scrivere reportage dal mondo. Con David ne avevo parlato spesso e sarebbe ingenuo non pensare che in qualche modo il suo essere giornalista non mi abbia influenzato, incuriosito”.

Chi è oggi, Carolina Orlandi, e cosa vuole fare da grande? Continuerà a scrivere altre storie?
“Oggi Carolina non viaggia più, o comunque non ha più pensato agli aeroporti, alle savane, al taccuino nello zaino con le scarpe terrose. Oggi il mio mondo ruota intorno alle vittime di giustizia, ai casi lasciati a metà, alle storie di vita, affaticata ma ostinata, dietro alle testate giornalistiche. Mi sento un po’ come una ragazza che fin da piccola ha sognato di fare il medico, la dermatologa per esempio, ma che dal momento in cui il padre è morto per un cancro, non ha visto nient’altro che la strada dell’oncologia, aspirando, un giorno, di salvare una vita, per provare a riempire qual vuoto che non ha saputo evitare”.

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