Leonardo San Pietro, torinese classe 1997, all’esordio nel romanzo con “Festa con casuario”, in una riflessione su ilLibraio.it risponde alla domanda che nessuno gli ha posto (legata al titolo del suo libro). Sullo sfondo, un altro quesito: sei davvero quello che hai sempre detto di essere?

Ho scritto un romanzo che si chiama Festa con casuario. Quando dico il titolo accade sempre la stessa cosa: mi si chiede di ripetere la parola “casuario“. Nessuno la sente bene, la prima volta. Nessuno. Poi, afferrato il «casuario», si aprono due scenari: nel primo, la persona con cui parlo fa finta di sapere perfettamente cos’è un casuario. Nel secondo dice: “Cos’è un casuario?“. Rispondo automaticamente, come se mi avessero infilato una monetina in bocca. “È una specie di struzzo. Cioè, è simile a uno struzzo, ma è colorato, e pericoloso”. (Forse vi siete accorti che non c’è un terzo scenario: infatti nessuno – o quasi – sa cos’è un casuario).

Dopodiché non mi si fa mai una domanda a cui muoio dalla voglia di rispondere: “Cosa rappresenta il casuario?“. Se me la facessero potrei dire tutte queste cose che adesso scriverò. Ma non me la fanno, e quindi le scrivo qui.

Negli anni scorsi mi bollivano tante cose dentro – molte mi bollono ancora – cose che in genere hanno a che fare col dolore di un ventenne, la difficoltà di trovare un posto nel mondo, la timidezza, la disperazione e l’ansia, la volontà di essere felice nonostante tutto. Volevo assolutamente parlarne, animare con questo groviglio interiore una narrazione. Raccontare una festa universitaria, mia prima idea, non era abbastanza. Serviva qualcos’altro. Serviva il casuario. Chissà perché una delle tante cose che avevo per la testa era il casuario. Lo trovavo affascinante, enigmatico. Se ne stava lì, appeso e pulsante come una stella, in un angolo della mia psiche. Forse quando abbiamo due cose appese e pulsanti in testa, ha senso unirle anche se sembrano distanti. Con me ha sempre funzionato. Così ha preso forma l’idea di questo animale bellissimo e misterioso e pericoloso alla festa, e dei ragazzi che dovevano riuscire a toccarlo, rischiando la vita.

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A questo punto a una parte di me piacerebbe dire che il casuario è, oltreché un espediente, cosa innegabile, anche un simbolo potente e indefinito che richiama magneticamente proiezioni di ogni tipo, che esprime l’inesprimibile, come la balena bianca e Godot. Ma la verità, penso, è che il casuario rappresenta qualcosa di preciso (o almeno, io l’ho ingaggiato perché lo facesse): è l’elemento straordinario che a un certo punto di ogni esistenza, anzi più volte nell’arco di un’esistenza, ci mette alla prova portando a galla tutto ciò che abbiamo dentro, grattando via la falsità e l’abitudine perché per la falsità e l’abitudine non c’è tempo, lasciando solo un involucro di pelle scabra e dolorante e viva che ha smesso di mentirsi. Il casuario è una sfinge improvvisa che ti grida: “Sei davvero quello che hai sempre detto di essere?“. Il casuario è un naufragio, un terremoto, un’alluvione. È un esame da cui dipende il nostro intero futuro. È una persona con cui stiamo da cinque anni che ci vuole lasciare. È un intervento chirurgico al cuore la prossima settimana. È un incidente d’auto, o una valanga. Il casuario è la morte di un amico.

Alla festa potrebbero passare tutti una bella serata e tornare a casa coi loro grovigli aggrovigliati e inesplorati, ma la sfida col casuario impone in un attimo tutto ciò che la vita ci fa deglutire piano piano, in dosi troppo piccole per poterci infiammare. I grovigli dei protagonisti sono messi in vibrazione dal casuario, sono costretti ad agitarsi come particelle e perfino a esplodere. Sono grovigli comuni, credo. Hanno a che fare con la paura, l’insicurezza, la disillusione – ma anche con slanci gioiosi, ironici, coraggiosi, idioti.

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Va detto che molti romanzi funzionano anche senza casuari, anzi, funzionano proprio perché non ne hanno – i meccanismi per creare tensione sono tanti. Delitto e castigo è chiaramente un romanzo del primo tipo, con casuario, Lessico famigliare e Stoner del secondo.

In Doppio sogno di Arthur Schnitzler il casuario è la sincerità affilata di Albertine, mentre in A long way down di Nick Hornby ci sono quattro tentativi di suicidio e altrettanti casuari. Centomilioni di Marta Cai, che racconta una vita in provincia, oltre a essere un romanzo stilisticamente raro e inebriante, è quasi totalmente privo di casuari, e se ne infischia.

Così il mio amato casuario non era necessario, ma era necessario per me, per la mia storia. Era necessario che rappresentasse quella scarica elettrica, per di più assurda e perfino grottesca, in quanto generata da un letale uccello australiano in un giardino piemontese. Questo rappresenta il casuario: spero di avere risposto alla domanda che nessuno mi fa.

Copertina di Festa con casuario libri ultime uscite 2025
L’AUTORE – Leonardo San Pietro è nato a Torino nel 1997. Si è laureato in Culture e Letterature del Mondo Moderno e frequenta la magistrale di Scienze Linguistiche a Bologna, città in cui vive. Ha frequentato la Scuola Holden, ha lavorato per un anno come lettore per Einaudi, e ha pubblicato i suoi primi racconti su Domani e su ’tina, la rivista di Matteo B. Bianchi dedicata agli esordi. Festa con casuario (Sellerio) è il suo primo romanzo.

La trama del libro porta a Torino. Siamo all’inizio dell’estate: Isa, ventenne studentessa universitaria di Lettere, organizza una festa nella sua villa con giardino. C’è alcol e cibo in abbondanza, e all’occorrenza droghe di ogni tipo. L’unico a non essere ancora arrivato è l’invitato che Isa aspetta con più ansia: Ezio, il ragazzo che le piace. A un certo punto, però, da un regalo anonimo salta fuori un minaccioso biglietto: se entro l’una di notte nessun invitato avrà il coraggio di toccare il casuario dei vicini, Ezio morirà. È uno scherzo, si dicono i ragazzi. E poi, cos’è un casuario? E perché ce n’è uno proprio nel giardino accanto? L’autore “dipinge un particolareggiato affresco di una generazione, tratteggia ansie e inquietudini, sbandamenti e reticenze, creando una tensione e una suspense inaspettata”.

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Fotografia header: Leonardo San Pietro, foto di Martina Pilello

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