Cecilia Rita è al debutto con un romanzo sull’atavico senso di colpa femminile: quello della “donna-mantide” che rifiuta il ruolo di cura, e che dunque è colpevole di infrangere le “regole” scritte per lei – La sua riflessione su ilLibraio.it, in cui cita Ludwig Wittgenstein, Natalia Ginzburg e David Foster Wallace

Il titolo del mio libro è Mantide, e quindi inizierei da un piccolo gioco linguistico in cui in un certo senso c’entra un altro insetto; nelle sue Ricerche, Ludwig Wittgenstein propone un esperimento mentale, e dice: “supponiamo che ciascuno abbia una scatola in cui c’è qualcosa che noi chiamiamo ‘coleottero‘. Nessuno può guardare nella scatola dell’altro; e ognuno dice di sapere che cos’è un coleottero soltanto guardando il suo coleottero. – Ma potrebbe ben darsi che ciascuno abbia nella sua scatola una cosa diversa. Si potrebbe addirittura immaginare che questa cosa mutasse continuamente”.

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Ecco, Wittgenstein è stato un filosofo, e nelle Ricerche filosofiche rifuggiva il solipsismo del Trattato e passava dal chiedersi come dev’essere il mondo per rendere possibile il linguaggio a cercare di capire come dev’essere il linguaggio considerato com’è davvero il mondo, ma la metafora si addice anche al nostro tema: c’è chi guarda il suo coleottero e lo chiama così, atavico senso di colpa femminile, ma ognuno sente una cosa diversa e questa cosa muta incessantemente, in base a illuminismi sociali e scatti di tempo.

Ci sono modelli, archetipi, come lo sono Elena di Troia e la prima Eva del mondo; c’è il pozzo profondo di cui parla Natalia Ginzburg nel suo articolo del 1948: “Ho conosciuto moltissime donne, e adesso sono certa di trovare in loro qualcosa che è degno di commiserazione, un guaio tenuto più o meno segreto: la tendenza a cascare nel pozzo e trovarci una possibilità di sofferenza sconfinata che gli uomini non conoscono forse perché sono più forti di salute o più in gamba a dimenticare se stessi e a identificarsi con lavoro che fanno, più sicuri di sé e più padroni del proprio corpo e della propria vita e più liberi”. Eppure, ho la sensazione che oggi le donne riescano a trascinare nel pozzo anche i loro uomini, e che tutti i discorsi su Elena ed Eva non funzionino più, ma non perché siano deboli o deludenti come spiegazioni, bensì proprio perché sono spiegazioni.

L’atavico senso di colpa femminile, o anche genericamente atavico senso di colpa o addirittura soltanto senso di colpa, alla fine è proprio questo: l’inadeguatezza dovuta all’incapacità di ricoprire il ruolo per cui siamo stati educati, quello che abbiamo ereditato e quello che altri, e altre, hanno ricoperto egregiamente prima di noi. È questa sensazione di insicurezza che ho visto in molti ragazzi (al maschile), nati alla fine degli anni Novanta, cresciuti con l’intuizione di una sensibilità, con una recidività melanconica, il rifiuto di battersi e picchiare, insomma una certa, generazionale cedevolezza di carattere alla quale non erano stati preparati dai loro padri, quegli uomini di cui parla Natalia Ginzburg, più bravi a dimenticare se stessi e a identificarsi con il lavoro che fanno.

Lo diceva David Foster Wallace in una (la numero 269) delle lunghissime e spesso trascurate note del suo capolavoro Infinite Jest, con quell’insieme di ironia e visionarietà che lo contraddistingueva, attraverso le parole di uno suoi personaggi più misteriosi e defilati, che si chiede che cosa, alla fin fine, si può definire abuso: “O anche diciamo un padre così abile a fare i lavori di casa e sa aggiustare tutto e si fa aiutare da suo figlio ma è talmente assorbito dai suoi progetti (il padre) che non pensa mai di spiegare al figlio come vengono svolti i progetti, tanto che l’«aiuto» del figlio non va mai oltre il semplice passare al padre una chiave specifica o prendergli una limonata o delle viti fino al giorno in cui […] tutte le possibilità di istruzione transgenerazionale sono perse per sempre, e il figlio non impara mai a essere altrettanto abile nei lavori di casa e quando c’è qualcosa che non funziona nel suo monolocale deve chiamare degli operai presuntuosi con le unghie sudice per aggiustarla, e si sente terribilmente disadatto (il figlio), non solo perché non è capace di aggiustarla ma perché questa capacità di aggiustare le cose gli pareva sembrasse al padre tutto ciò che era indipendente e virile e non-handicappato in un maschio americano. Griderebbe «Abuso!» se fosse il figlio incapace, a ripensarci?».

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Ecco perchè oggi, nel 2025, i ripetuti tentativi di difendere la donna dall’accusa mossa a Elena di Troia, ovvero di aver istigato ciò che ha svuotato di uomini la Ionia, mostrano un’insistenza compulsiva e stridula che tradisce un’eccessiva propensione alle rimostranze: un’excusatio non petita. Perché l’atavico senso di colpa femminile è un concetto che abbiamo creato noi, aprés coup, osservando tutti gli anni di storia del genere umano stesi uno sopra l’altro a seccare, e se esiste appartiene a tutti i generi e, talvolta, nella donna si manifesta come l’erotismo del martirio, il peccato di tracotanza compiuto nel tentativo sclerotico di prendersi cura: basta ascoltare Carey Mulligan nei panni di Felicia Montealegre nel film Maestro (2023), quando ormai avanti con gli anni spiega alla sua amica che suo marito, il direttore d’orchestra Leonard Bernstein, non ha mai nascosto di saper amare anche gli uomini, e in ogni caso le ha fatto presente fin da subito che, se voleva rimanerle accanto, avrebbe dovuto accettare di non essere l’unica: “Not that he failed me. It was my own arrogance. To think I could survive on what he could give. It was a sort of banner i wore so proudly: ‘I don’t need'”. Ed è per questo che in Mantide ci sono tante vittime quanti carnefici, ed è perciò difficile fare distinzione: le vittime, con il loro vittimismo oltranzista, si fanno carnefici, e i carnefici, con la lungimiranza della visione rivolta verso un futuro per gli altri indecifrabile, diventano vittime. E tutto questo a causa della loro inadeguatezza, per l’incapacità di sottrarsi ai ruoli che pensano di essere costretti ad assumere.

Copertina di Mantide di Cecilia Rita

L’AUTRICE – Cecilia Rita, nata a Recanati nel 1999, fa lavori saltuari e vive tra le Marche e Torino, dove studia attualmente Culture Moderne Comparate. Ha frequentato la Scuola Holden e il suo progetto finale è stato presentato all’edizione 2023 di Opening Doors.

Ora è al debutto per NN con un romanzo sull’atavico senso di colpa femminile: quello della “donna-mantide” che rifiuta il ruolo di cura, e che dunque è colpevole di infrangere le “regole” scritte per lei.

Cecilia Rita

Cecilia Rita

La protagonista di Mantide, Mia, ha 27 anni e fa la moderatrice di contenuti: tutti i giorni passa in rassegna e censura da Internet i video più violenti o pornografici. Da quando il suo ex fidanzato, Ruben, è morto folgorato nella vasca da bagno, Mia vive un loop di nichilismo e rimorso; lei e Ruben sono stati insieme dieci anni, in una relazione intossicata dai continui ricatti emotivi di lui e dalla sua paura di abbandonarlo. Quando vede il video di una ragazza identica a lei, Sofia, che tenta il suicidio, Mia si mette sulle tracce di Lapo, fidanzato di Sofia e musicista in ascesa, e di Margot, l’amante di Sofia, che fa la escort e la ballerina in un night club. Con i due ragazzi, Mia costruisce una relazione sentimentale e sessuale, come se entrare in intimità con il lutto altrui la aiutasse ad affrontare il proprio ed uscire dal guscio. Ma è solo quando l’amica Miriam propone a lei e Margot di andare a vivere tutte insieme in una piccola comunità di donne, che Mia sembra trovare un posto in cui ricomporsi, in un patto di sorellanza fuori dagli schemi.

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