Un regista chiede alla sua attrice di lavorare a una messa in scena che affronti il tema del dolore, a partire da “Diario di un dolore” di C.S. Lewis. Come si rappresenta il dolore e quali sono i limiti nella possibilità di raccontarlo? Quello di Francesco Alberici è teatro di autofiction per nulla ombelicale, una messa a nudo originale di autentica pregnanza e misurata essenzialità. Si giunge così al nocciolo del dolore, che diventa azione, riflessione, racconto, epifania, festa tristissima e vera… – La recensione

Ti sei fatto male?“, chiede in sogno la nonna a Francesco – con tutta la condensazione, la pregnanza veggente, delle questioni oniriche, e quell’ambiguità verbale/esistenziale fra il dolore subito e quello autoinflitto che la domanda pur contiene. Lo fa di spalle al nipote, osservado la copertina di Frigidaire di Franz Ecke, autoritratto di un volto ammaccato, per buona parte fasciato, che lascia libero lo sguardo, esprimendo un sorriso sottile, enigmatico, ferito: mummia, Gioconda (tra)sfigurata, revenant, specchio e ossessione del personaggio/autore/regista, totem e icona che campeggia nella sua camera e si staglia in una scena essenziale, spoglia, interiore (incidentata e scomoda?), arredata di un tavolo di legno e due sedie, abitata, fra gioco e confessione, evocazione e domanda, necessità assoluta di mostrare e pudore del fuori campo, da Francesco Alberici (casual nero, maglietta con la silhouette dei Blues Brothers) e Astrid Casali (felpa con effige di lupo sul petto), che, con il contributo di ideazione e scrittura di Enrico Baraldi e Ettore Iurilli, portano sul palco, con i loro nomi propri e in panni quotidiani, Francesco e Astrid, il loro rapporto con il dolore, si potrebbe dire il segreto del dolore, o perlomeno fin dove ne riescono a dire. Il loro ri-attraversare il dolore, a teatro.

Non che il tema, importante e universale (da Montaigne a Shakespeare, fino a Checov, qui evocato, al centro del Canone Occidentale), quello del dolore, della recita del dolore, dell’esigenza di farsi narrazione ed espressione di questo “farsi male”, sia cosa nuova o inedita. Eppure il modo in cui questo spettacolo (prodotto da Gli Scarti e TPE – Teatro Piemonte Europa), che prende le mosse e il titolo dalla notevole e struggentemente asciutta cronaca/elaborazione di un lutto in quattro quaderni Diario di un dolore di C.S. Lewis (pubblicato in Italia da Adelphi), è concepito, costruito e restituito ne fa un oggetto speciale e specialmente riuscito.

Uno spettacolo di autofiction per nulla ombelicale e una messa a nudo originale di autentica pregnanza e misurata essenzialità, debitore felice e non derivativo – mi pare – del teatro di scavo di Deflorian/Tagliarini (che Alberici ha attraversato più volte, non ultimo mettendo in scena Chi ha ucciso mio padre) e di quello personalmente politico e tagliente di Milo Rau (della cui declinazione unica di mettere insieme processo creativo e realtà, lavorazione ed emozione, finzione e crudezza, realismo e riflessione sul teatro si sente molto la lezione).

Ecco che siamo accolti, come a un rito/festa, con vino e grissini (sabato 22 ottobre, nella seconda delle due repliche al Festival delle Colline Torinesi, nello spazio Off Topic), e trasportati, quasi per scherzo, e senza soluzione di continuità (quando esattamente inizia questo spettacolo?), a interrogarci, apparentemente in modo giocoso, sull’incipit stesso, e poi fin da subito sulla pietra d’inciampo (etimologicamente lo scandalo) del dolore, le sue recite, le sue scene, scenette, scene madri (e padri) e scenate: Astrid è (stata) una bimba che ha trasformato il capriccio in sublime strumento d’attenzione. In quella ferita simulata/esagerata c’è tutta una vocazione attoriale e l’essenza di un mestiere e di uno stare (un po’ male) al mondo.

Cresciuta in una famiglia che ha sempre vissuto sul confine labile fra palco e vita (il primo ricordo la madre che recita la morte in scena; il padre che prescrive il proprio funerale sul palco, pronunciando l’ingiunzione paradossale, e disattesa dalla figlia, di non versare lacrime), Astrid sa fin da piccola fingere. Ma, raccontandoci questa sua capacità, in un “come se” bambinesco, e con momenti comici (Bob Fosse, citato da Antonio Tagliarini in Sovrimpesioni: “Noi facciamo questo: prendiamo quello che fa male e lo trasformiamo in una gag”), comincia ad avvicinarsi gradualmente al nucleo indicibile e vero della sofferenza.

Ecco che attraverso ricordi (che senso ha ricordare?) e invenzioni di sana pianta, simulazioni e trucchi, prima ridendo, e quasi da fuori, poi lentamente sempre più al cuore, si giunge al nocciolo del dolore, che diventa azione, riflessione, racconto, epifania, festa tristissima e vera (come in una scena, sulle note post-punk dei Joy Division che ricostruisce questo paesaggio interiore con rara efficacia icastica, e che non spoilero). Forse silenzio.

Francesco, di fronte alla potenza archetipica della storia di perdita di Astrid, fa un passo indietro, anche se impossibile e vacuo pare ogni tentativo di graduatoria (anche solo drammaturgica) dei dolori, e il buio apparentemente senza causa della depressione aleggia come un’ombra per certi aspetti ancora più spietata, poiché incapace di darsi un qualche senso in forma di narrazione.

Il registro metateatrale, quello di autofinzione dichiarata, il fil rouge delle citazioni, non sono esercizi postmoderni, giochini d’assemblamento, collages narcisistici di maniera, ma sapiente costruzione di uno meccanismo-specchio rivelatore, in cui lo spettatore vede e vive infine il suo (personalissimo, indicibile) dolore, ché, come dice Astrid (riferendosi a Le sorelle di Checov, ma viene in mente Amleto): “Il teatro è pieno di padri che muoiono però, quando il padre che muore è il tuo, è diverso“.

Difficile allontanarsi da questo spettacolo (sulle note di Immensità di Andrea Laszlo De Simone, il palco pulsante di una mancanza/presenza fortissima… Scrive Lewis: “La sua assenza è come il cielo: si stende sopra ogni cosa”) non avendo la sensazione profonda di aver toccato con grazia una materia vasta e incandescente, di aver vissuto/intuito un segreto scuro che alberga in ciascuno di noi.

L’AUTORE: qui tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

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