“In che lingua viviamo? Questa domanda è da sempre il mio cruccio…”. In occasione dell’uscita di “Quel luogo a me proibito”, su ilLibraio.it la riflessione della scrittrice campana Elisa Ruotolo

In che lingua viviamo? Questa domanda è da sempre il mio cruccio. E siccome lo spazio che abito è spesso quello della mente, la domanda più giusta immagino debba essere: in che lingua pensiamo?

Nascere non è solo la messa al mondo in un ambiente, ma soprattutto è l’ingresso in una dimensione di parole. Diciamo spesso, È nato in una famiglia, mentre si dovrebbe precisare, È nato in una lingua – se molto di quello che saremo chiamati a fare dipende da ciò che sapremo dire e dai modi in cui lo diremo.

È vero poi che la nascita non include la durata, poiché a un certo punto credo si abbia la facoltà (o il dovere) di scegliere il proprio idioma col gesto irrevocabile dei pionieri. Appena entriamo nel mondo delle parole (pronunciandole prima e poi scrivendole), non esistono solo le terre date, ma anche spazi da colonizzare o, per usare un termine meno feroce, da abitare.

Io sono stata una bambina che parlava poco, ma che, fin dai primi anni di vita si è dovuta misurare con una sorta di plurilinguismo di cui ho avuto consapevolezza solo più tardi. In retrospettiva, vedo la lingua di cui mi sono servita negli anni come una serie di anelli concentrici, e in quello più prossimo c’era una sorta di gergalità privata, una specie di idioletto a volte comprensibile a me sola o a chi mi era prossimo (simile a quello che mi avrebbe fatto sorridere anni dopo leggendo Lessico famigliare della Ginzburg); poi un sostrato strettamente locale (più intimo del regionalismo), ed era una lingua che si sporcava di cadenze particolari, e in cui persino il tono andava calibrato diversamente; ancora più in là c’era un anello esterno che arrivava fino al punto in cui cominciava il parlare che consideravo corretto, senza cedimenti alle inflessioni, senza i toni che eccedevano dandomi il batticuore delle sgridate.

Al confine tra questi due mondi sostava un interregno, dove avveniva un meretricio tra purezza e deviazione, uno sporcarsi reciproco, uno stare in bilico tra il nitore dell’educazione e il selvatico dell’originario. In quello spazio a metà mi sarei fermata io, che avrei sempre avuto bisogno di restare negli anelli più interni per poter ascoltare mia nonna e farmi capire – ma col bisogno di andare anche oltre, appropriandomi di un lessico condiviso (e acquietato in questa condivisione).

Mescolare tutto, a un certo punto, è stato naturale: quando ho scritto ho impastato a piene mani, importando e travasando da un anello all’altro alcune strutture sintattiche. Spesso ne ho inventate altre per ricalco, perché venivo da una parlata senza controllo, quella delle strade in cui mi ero mossa, e che – per quanto domata – a tratti mi si impennava dentro con il fare naturale dell’appartenenza. La sensazione di maneggiare un materiale incandescente ha stravolto in me ogni cautela: con le parole potevo arrivare dove non avrei osato vivendo, con loro mi sarei potuta spingere fino all’indicibile. La lingua, insomma, poteva più del gesto. E siccome per me c’erano stati da sempre almeno due modi per chiamare le cose che mi circondavano, questa realtà sembrava avvertirmi di una doppiezza, di uno sguardo quasi strabico. Sembrava dirmi che il reale era inafferrabile. Ancor più: era inaffidabile. Dalla varietà della mia lingua di partenza ho imparato il grosso della vita, forse il suo lato più crudele e indefinibile.

La contaminazione approvata paradossalmente nello scrivere, ho preferito però educarla nel parlato. È la ragione per cui credo che i libri siano qualcosa di più compiuto e sincero – forse di più riuscito – rispetto a chi li scrive: loro non provano vergogna, riescono anzi a usare quei pensieri e quelle parole che nella vita di ogni giorno trattiamo con preoccupazione. Se in cuor mio non avessi saputo questo, credo che non avrei scritto neanche un rigo. Invece, mentre lo faccio so di poter tenere tutto assieme: l’istinto e il controllo, ciò che è umano e ciò che non lo è, l’amore e il disamore, la comprensione profonda o l’assenza di pietà. Insomma, anche ciò che normalmente non si ha il coraggio di accettare o dichiarare come proprio.

La mia identità è lì, in una lingua che non rifiuta il debito delle origini, che non educa le parole. Più esercito un controllo su di loro, e meno le sento mie. Rispetto all’italiano standard, privo di cedimenti, mi è sempre parso che il dialetto fosse una lingua capace di perdere la pazienza e di prendersi delle libertà. Parlarlo è stato per anni una questione di coraggio, e io non ne avevo: era però facile recuperarlo scrivendo. Sedevo al tavolino e la lingua aveva un valore privato oltre che pubblico; l’inafferrabile era di casa – e sacra la molteplicità di senso, se nulla si accontentava di essere compreso una volta per tutte. Ciò che realmente siamo – l’ho capito in seguito – è una somma, non un assottigliamento verso l’unità.

Un riflesso di questa percezione si affaccia nel mio ultimo romanzo, dove la protagonista attraverso lo studio e un affinamento linguistico oltre che fonetico pensa di costruirsi un’identità che le possa bastare. Salvo poi scoprire che essa non riposa nell’addomesticato, ma in una zona franca in cui tutto si rimescola, non solo perché la vita (e in essa la lingua) soffre se sottoposta a processi di innaturale “igienizzazione”, ma anche perché le lingue che abitiamo restano per sempre in circolo nel nostro sangue.

elisa ruotolo quel luogo a me proibito

L’AUTRICE E IL LIBRO – Nata nel 1975 a Santa Maria a Vico (Caserta), Elisa Ruotolo (in copertina nella foto di Mauro Zorer, ndr) con nottetempo ha pubblicato nel 2010 il suo libro d’esordio, la raccolta di storie brevi Ho rubato la pioggia (premio Renato Fucini e finalista al premio Carlo Cocito; tradotto in Francia e Stati Uniti) e nel 2014 il suo primo romanzo Ovunque, proteggici (Selezione premio Strega 2014, presentato da Dacia Maraini e Marcello Fois, e finalista al premio internazionale Bottari Lattes Grinzane). La sua ultima pubblicazione in prosa è Una grazia di cui disfarsi. Antonia Pozzi: il dono della vita alle parole (edizioni rueBallu, 2018). Nel 2019 per Interno Poesia ha curato il volume Mia vita cara. Cento poesie d’amore e silenzio di Antonia Pozzi e ha pubblicato con l’editore nottetempo la raccolta poetica intitolata Corpo di pane (tradotta in spagnolo dall’Istituto Italiano di Cultura di Madrid).

Nel suo nuovo romanzo Quel luogo a me proibito (Feltrinelli), ambientato in un Meridione ben distante dai segni della modernità urbana: la protagonista cresce oppressa da un ambiente familiare in cui le condotte pubbliche e private sono spietatamente misurate sul terrore del giudizio sociale e sul rigore vincolante del dovere quotidiano. Il nido protettivo diventa allora nodo difficile da sciogliere e da portare. “Famiglia era questo: una messa in comune del privato, un difetto di autonomia, una continua chiamata in causa dell’altro, un sostenersi che diveniva peso”.

A smentire il clima familiare, la figura della nonna materna, una donna vitale, attenta ai propri spazi di autonomia e libertà, un modello stigmatizzato dai genitori della ragazza ma di cui lei sente di aver ereditato il “sangue ferino”, una sotterranea spinta a spezzare i legami per seguire i propri desideri. Questa attrazione si incarna per lei, nell’infanzia ma soprattutto nell’adolescenza, in Nicla, una ragazzina libera e istintiva che non ha paura di andare con i ragazzi. Paura che al contrario la protagonista non riesce a vincere se non nelle sue fantasie o nei libri, tanto che la ritroviamo adulta ma ancora inesperta di sé e degli uomini: la sua piccolezza assai simile a quella del bonsai, che – frenato nella crescita con tagli e legature – non è in grado di dare ombra né frutto.

Ha un lavoro e si è lasciata alle spalle il dialetto da cui proviene quando conosce un uomo che rappresenta il proibito, il desiderio, forse il nodo più difficile da affrontare: “Avevo sempre pensato che per me tutto potesse risolversi nel chiuso di una stanza o negli affetti in cui ero nata, ma Andrea ora mi dimostrava che c’era anche altro”. Si tratta di fidarsi, ma quanto coraggio serve per assumersi la responsabilità del proprio piacere?

Fotografia header: Foto di Mauro Zorer

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