“Del fallimento abbiamo un disperato bisogno, e non tanto perché siamo animali saggi che imparano sbagliando. Il fallimento, o meglio la narrazione del fallimento, ha una funzione rituale, è la nostra preghiera quotidiana…”: su ilLibraio.it la riflessione di Laura Buffoni, autrice all’esordio con il romanzo autobiografico “Un giorno ti dirò tutto”

Com’era bello giocare al cucù.

Me ne ricordo ancora perché, sfogliando l’album di famiglia con mia madre, tante volte ci siamo imbattute in una serie di vecchie foto rossastre che ci immortalano così: lei che si tiene le mani a coppa sul viso, io che la guardo seria, ferma; poi lei schiude le mani di colpo, la lingua batte sui denti. “Settete!”, io mi apro in una gorgogliante risata sdentata, estatica nel realizzare che mia madre è ancora lì, il suo volto non si è dissolto o trasformato in qualcos’altro nel momento in cui è stato nascosto alla mia vista.

Molti anni dopo ho rivisto in mia figlia la felicità di imparare in quel semplice gioco che il suo piccolo, debole mondo non veniva inghiottito dal buio ma continuava a esistere sempre. Sulla schermata del mio telefono Anna, mia figlia che ha lo stesso nome di mia madre, giocando a cucù ride e batte le mani, assaporando il conforto e la gioia della permanenza.

Qualche tempo fa, in seguito ad alcune vicende personali, ho cominciato a guardarmi indietro e interrogarmi sui miei passati fallimenti, a metterli in relazione con il presente. Mi chiedevo come mai un costante senso di inadeguatezza mi accompagnasse ancora, eppure tutto nella mia vita andava bene.

Mi ero dunque messa in testa di scrivere un libro, una specie di saggio sul fallimento. Quel saggio, come forse era destino visto il tema, non è poi andato a buon fine e ha preso direzioni impreviste, ma lavorarci mi ha fatto tornare in mente quel vecchio gioco innocente. Perché il cucù in realtà continuiamo a farlo sempre, anche se in altre forme, lo facciamo da adolescenti e da adulti, lo deleghiamo a chi ci racconta storie: i social media, il cinema e i libri, la musica, lo sport. Il fallimento è il nostro cucù.

Anche la persona più affermata che abbia conosciuto ricorda con commozione la volta che ha commesso quell’orribile sbaglio, quell’errore che ha cambiato la sua vita. L’errore grazie al quale è diventata la persona che è oggi, spesso una persona migliore. Proprio così, perché non c’è conquista più dolce che quella ottenuta con fatica e amarezza, dopo innumerevoli sbagli. Non c’è vittoria più memorabile di quella che arriva ribaltando il risultato, beffeggiando tutti i pronostici. Niente di più inebriante della retorica del fallimento, redenzione e catarsi, cadere e poi rialzarsi, sbagliare per imparare, perdere per vincere. L’errore deve essere espulso dal nostro mondo felice, diventa un tabù da esorcizzare dentro una narrazione rassicurante e a lieto fine: fallire per avere successo.

Guardandomi intorno, lo vedo dappertutto, al cinema e in tv, nelle librerie stracolme di manuali di autoaiuto e biografie di personaggi famosi, inventori e sportivi, traboccanti di rovinose cadute – il fallimento è spettro tragico e antagonista di ogni storia, il cavaliere oscuro senza il quale l’eroe non sarebbe così splendente e forte nel superare i propri punti deboli e infine vincere.

Da Ulisse a Sinner, da Peppa Pig a Einstein a Harry Potter, vale per tutti.

Eppure, mentre ci raccontiamo queste storie, e le nostre stesse vite ce le vediamo in rewind come in uno spot pubblicitario “sembrava impossibile ma ce l’avevamo fatta”, il fallimento è ciò che più temiamo, il bug che cerchiamo ogni giorno con rabbia di cancellare.

Le nostre evolute e tecnologiche esistenze si ribellano all’errore, all’alea, alla noia. Negano la decadenza e la finitezza. Nelle nostre vite performanti, ci lasciamo guidare per non sbagliare strada, ci affidiamo a famaci che salvano, a macchine che tengono in vita. E tutto questo è fantastico e necessario, è bellissimo oltre che utile avere più tempo, poter usare meglio le nostre risorse, avere molte più scelte a disposizione, più facilità di accesso alle informazioni, la possibilità sempre più concreta di correggere gli errori delle nostre cellule soggette a impazzimento, di vivere più a lungo. Ogni giorno ci impegniamo con tutte le nostre forze per minimizzare l’errore, far arretrare la morte di un passo.

E mentre combattiamo contro l’indicibile e contro il buio, ce lo rappresentiamo con tutti i nostri totem e i trofei e le canzoni, ci raccontiamo storie a lieto fine di cadute e risalite, sconfitte e trionfi, tennisti e scalatori e coppe di campioni. Del fallimento abbiamo un disperato bisogno, e non tanto perché siamo animali saggi che imparano sbagliando. Il fallimento, o meglio la narrazione del fallimento, ha una funzione rituale, è la nostra preghiera quotidiana: là fuori da qualche parte impazzano guerre e epidemie, là fuori è buio, fa troppo caldo e qualcuno muore; e noi “cucù, settete!”, ecco che lo facciamo rinascere, perché tutto è reversibile, dopo il buio c’è sempre la luce, c’è una madre che sorride, e il nostro fragile mondo può continuare a esistere.

Un giorno ti dirò tutto di Laura Buffoni

L’AUTRICE E IL LIBROLaura Buffoni è dottore di ricerca in cinema e arti, critica e autrice di saggi e pubblicazioni sul cinema. Dal 2005 collabora con la casa di produzione Fandango, dove si occupa di sviluppo e produzione di film e progetti televisivi.

Un giorno ti dirò tutto è il suo primo romanzo, edito da HarperCollins.

La protagonista, Laura, ha sei anni quando i suoi genitori decidono di trasferirsi dal loro quartiere residenziale di Roma Nord al Laurentino 38, esperimento presto fallito di edilizia popolare a sud della capitale, uno dei luoghi più malfamati d’Italia. Perché i loro figli devono stare a contatto con la “vita vera”, non devono “crescere nella bambagia”. E la vita vera è lì ad accoglierli, tra eroinomani che si trascinano sofferenti e ragazzini delle medie pronti a squagliarti la faccia sulla fiamma di una candela. Laura prova a mimetizzarsi, a cantare con gli altri «Un due tre viva Pinochet». Ma, come ogni maschera, anche la sua cade, e dovrà pagare il conto per quel tentativo di fingersi quello che non era…

Anni dopo, grazie a un documentario scoprirà che fine hanno fatto i persecutori che tanto l’avevano terrorizzata. Da lì potrà ricostruire la sua storia e quella della sua famiglia, cercare di capire da cosa viene quel senso di inadeguatezza che ancora oggi, che ha un lavoro che le piace e una figlia che ama, non la abbandona. La sensazione che ci sia ancora chi è pronto a smascherarla e fargliela pagare.

Con il suo romanzo di esordio, Laura Buffoni traccia la propria autobiografia, con i suoi grandi traumi e le sue gioie piccole e fondamentali. Un giorno ti dirò tutto coniuga pagine drammatiche, realismo e situazioni surreali. È un romanzo che parla di amore, di dolore, di memoria, di speranza, una meditazione sul fallimento e su come sopravvivergli, con o senza riscatto.

Scopri le nostre Newsletter

Iscrizione alla Newsletter
Il mondo della lettura a portata di mail

Notizie, approfondimenti e curiosità su libri, autori ed editori, selezionate dalla redazione de ilLibraio.it

scegli la tua newsletter Scegli la tua newsletter gratuita

Fotografia header: Laura Buffoni, nella foto di Margherita Mirabella

Libri consigliati