Sono finalmente disponibili, opportunamente raccolte, curate e postfate da Andrea Cortellessa, le “Emigrazioni oniriche” di Giorgio Manganelli (1922 – 1990), titolo quanto mai adatto per sugellare i testi di uno scrittore che non è un critico d’arte di professione. Tutta l’arte, per l’autore, è uno spettro…

Se si sfogliano le pagine dedicate all’arte – ma il termine è inadatto – di Giorgio Manganelli, sono due grandi immagini/parole archetipiche che affollano di continuo, come un’ossessione, quella scrittura: il fantasma e il labirinto.

Oltre al volume dei Salons, in cui sono raccolti i testi che Manganelli scriveva per la rivista “FMR” sotto invito di Franco Maria Ricci, alla fine degli anni Ottanta, sono oggi finalmente disponibili, opportunamente raccolte, curate e postfate da Andrea Cortellessa, le Emigrazioni oniriche, titolo quanto mai adatto per sugellare testi di uno che non è un critico d’arte di professione, ma piuttosto un “saltimbanco” (la definizione è dello stesso Manga) e che va “vagabondando ad adocchiare tele e disegni e dir sciocchezze, come viene viene”.

giorgio manganelli emigrazioni oniriche

Che non siano sciocchezze è evidente anche a una rapida sfogliatura di pagina, ma pure questa rivendicata postura amatoriale è indicativa di una libertà di espressione che consente a Manganelli riflessioni e trasfigurazioni del dato visivo che ha davanti gli occhi, per penetrarlo più a fondo o riportarlo, magari anche tradendolo, alla sua esperienza di letterato; quel letterato arbitrario e dispersivo, come Baudelaire, De Quincey o D’Annunzio, che sa “travalicare nell’immagine e insieme abbandonarla, negarla, sgualcirla”; è quanto avviene, per esempio, nell’interpretazione controcorrente delle raffigurazione dei “pitocchi” di Cerutti: “sono un registro retorico, una scelta di linguaggio, e quella scelta, se devo essere chiaro, nasce non già da amore cristiano, ma da assoluta indifferenza morale, da una splendida e torva passione pittorica”; o ancora,  nell’attenzione alle feci riscontrata nei quadri di Carol Rama anche laddove non c’è, ma che non manca di grande acume interpretativo: “la scoperta delle feci come personaggio, dell’atto di defecare come movimento che racconta, che si propone, che si disvela, è il segno di una vocazione al completamento, all’interezza, in cui si racchiude il nucleo di ilarità” – e che commenta obliquamente, o almeno intercetta (o emigra) nella scrittura d’invenzione se pensiamo anche soltanto a quella pagina di Dall’Inferno in cui si celebra “la gloria, la potenza, la dignità delle feci”.

All’inferno, d’altronde, sembrano condurre molte di queste pagine, come la recensione alla mostra Realismus, 1919-1933, definita una “didattica dell’inferno”, o il meraviglioso commento alle patate di Van Gogh, “tuberi ctoni, frutti che nutrono di lunghe tenebre, cibi apparecchiati, allevati nel luogo della sepoltura. Le patate sono notte, profondità, cimitero, tomba, nero, nerità: e hanno la forma sgraziata e concentrica del mondo”.

Un mondo irreale, come la realtà stessa, fatto di illusioni, ombre, falsi e copie, di fantasmi e di labirinti: di presenze, cioè, che si pongono sempre sul crinale fra corpo e spirito, fra caducità e illimitatezza, fra la vita e la morte, è qualcosa insieme di materiale e divino, seppur di un divino demoniaco. E si pensi alle parole sui ruderi, il cui fascino sta nella loro inutilità, perché la loro “forma dichiara il rifiuto di esistere come parte di un mondo coerente. Il rudere è un monumento assurdo, discontinuo, impossibile, tendente in modo definitivo ad annullarsi”.

Tutta l’arte, sembra dire Emigrazioni oniriche, è uno spettro. Forse lo sono anche gli artisti, come mostra l’articolo del 1988 su Van Gogh, in cui si immagina, in maniera non dissimile da una delle Cronachette di Sciascia, che il pittore non esista, e sia stato inventato da una “coperativa di falsari”.

La copia, il falso, l’illusione, la menzogna, sono temi (o ipotesi interpretative) che continuamente tornano in questi scritti, come avviene, per esempio nella recensione alla mostra Museo dei musei, che espone copie dei grandi capolavori: “Fortunatamente, qui c’è il doppio, il fantasma, la patacca, il doppio sesterzio di Totò, quel che volete. E a me piace”; o nelle considerazioni sulla fotografia intesa come un falso, “un indistricabile groviglio di allusioni, indici, denunce, e pura e semplice menzogna”. O un fantasma, per riprendere la nota definizione che ne dà Barthes ne La camera chiara.

Lo stesso museo è definito, in una conversazione con Lea Vergine uscita su “Alfabeta” nel maggio del 1982, un “luogo di raccolta di fantasmi”; e questa fantasmaticità Manganelli cerca continuamente di catturarla, come si vede benissimo dall’articolo sul manierismo, che inizia con una ironica e paradossale domanda, che mostra bene una qualità insieme giocosa e angosciata della scrittura manganelliana: “Un gatto è un manierista?” e la risposta non può che essere positiva: “non v’è dubbio, il gatto è manieristico”, “è una tigre tascabile”. Ma il gatto è anche l’io, se è vero che lo stesso stile dell’articolo è definito manieristico, come tutto poi lo stile di queste pagine sull’arte, costruite sulla retorica della congerie, e sul “commercio esatto con l’errore”.

Sembra quasi che il mondo delle immagini, delle cose, degli oggetti descritti, parlati, da Manganelli sia quello descritto da un bellissimo (quanto sfortunato, almeno in Italia) libro di Gustav René Hocke proprio sul manierismo come modalità transtorica dell’arte: Il mondo come labirinto.

L’immagine del labirinto è l’altra grande costante di questi testi, che aspirano un po’ tutti all’ideale della Wunderkammer, cui, attraverso la mitologiche collezioni di Manfredo Settala a Milano e Athanasius Kircher a Roma, rende bene l’idea di congerie di questo libro (che si ritrova sia al livello di raccolta che di singolo pezzo): un mondo collezionabile solo frantumato in schegge.

E troviamo così davvero di tutto in Emigrazioni oniriche: le mummie egizie, il guardaroba di d’Annunzio, una Cleopatra di una bellezza che non “vedremmo nemmeno a Domenica In”, e con un padre che ha “un volto da scugnizzo, raffinato e un po’ da teppista”, l’architettura, i reperti preistorici, le “patacche”, i grandi artisti e le grandi mostre sul passato (come la storica mostra milanese sul Seicento lombardo, voluta, fra gli altri, da Giovanni Testori), i contemporanei, con cui spesso Manganelli è in contatto (Gastone Novelli, che realizza una serie di illustrazioni da Hilarotragoedia, Carol Rama, Lucio Fontana, Achille Perilli, Baruchello, Gina Pace, Toti Scialoja e via dicendo).

Questo coacervo, questa camera delle meraviglie ben sintetizza una delle caratteristiche, per Manganelli, di tutta l’arte, considerata come “qualcosa che agisce numinosamente, che è insieme gioco e impossibile”, che sta insieme dal lato della fabbricazione del divino e del trauma, dell’angoscia e della deiezione: recensendo Arte e anarchia di Edgar Wind, così, il Manga potrà sostenere che la fantasia artistica “è essenzialmente traumatica; è esperienza per sua natura selvatica, segregata, discontinua alle più agevoli consuetudini collettive”, è asociale, catastrofica, teppista.

Non a caso della mostra viennese sul manierismo recensita nel 1987 si dice che somiglia a una mostra religiosa, proprio perché il manierismo discorre con l’ombra. In fondo tutto Emigrazioni oniriche, si potrebbe dire, è un libro manierista, che ci piace anche, forse tanto più, perché è vicino all’errore: “Siamo anche noi manieristi? Ma, in verità, siamo mai stato altro?”.

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