A unire Asya e Manu, protagonisti di “Gli antropologi”, terzo romanzo di Ayşegül Savaş, non è soltanto la condizione di espatriati: pur senza conoscere una parola delle rispettive lingue madri, diventano l’uno il mondo dell’altra, patria reciproca. Insieme ritratto intimo di una coppia e riflessione sull’esistenza contemporanea, il libro restituisce la vita nella sua essenza più minuta, celebrando la grazia discreta di ciò che, di solito, non sembra degno di essere raccontato…
Asya e Manu si incontrano all’università, entrambi stranieri in un Paese che non è il loro. A unirli non è soltanto la condizione di espatriati: sebbene cresciuti ai due lati opposti del mondo, le loro famiglie condividono simili valori di disciplina, affetto e possibilità economiche.
In brevissimo tempo – pur senza conoscere una parola delle rispettive lingue madri – diventano l’uno il mondo dell’altra, patria reciproca. Eccitati da quell’idea, si sposano e si trasferiscono in città.
All’inizio vivono senza preoccuparsi troppo di “rendere le cose più solide”: sono giovani, sentono di avere davanti infinite possibilità, e per qualche anno si accontentano di “giocare” a fare gli adulti più che impegnarsi a diventarlo davvero. Poi, però, il bisogno di stabilità ha il sopravvento – il desiderio di sentirsi integrati, di avere affetti e “regole più rigide” da seguire. Il primo passo, deciso quasi in preda al panico, è cercare casa.
È da qui che prende avvio Gli antropologi, terzo romanzo di Ayşegül Savaş, scrittrice nata a Istanbul ma che ha vissuto in Inghilterra, Danimarca, Stati Uniti, Francia: un percorso biografico che le ha permesso di conoscere bene i desideri e le difficoltà degli expat – la libertà di reinventarsi altrove, ma anche la precarietà di un’estraneità costante, l’assenza di radici e rituali da ereditare. Con questo libro, uscito per Gramma Feltrinelli nella limpida traduzione di Gioia Guerzoni, Savaş offre un romanzo delicato e acuto, insieme ritratto intimo di una coppia e riflessione sull’esistenza contemporanea.
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La trama, in senso stretto, è minima. Attraverso la voce narrante di Asya – documentarista con studi in antropologia – l’autrice si assume un compito singolare: mappare la vita quotidiana secondo categorie antropologiche, analizzando routine e rituali, relazioni di parentela, nozioni di sacro e profano. Asya osserva la coppia che forma con Manu come se fossero una tribù e si domanda quale sia il modo migliore di raccontarla, considerando quanto la loro vita sia provvisoria e sradicata.
In parallelo, rivolge la stessa attenzione ai frequentatori di un parco cittadino: sta girando un documentario che diventa la sua “ricerca sul campo”. “Voglio solo sapere come vivono le persone”, confessa, “come vivono davvero. Nelle mie interviste al parco, rimango affascinata dalla routine degli sconosciuti”.
Il romanzo si presenta così come un cahier de terrain, un quaderno di campo composto da capitoli brevissimi, frammenti e appunti dai titoli che spesso si ripetono (Modi di vivere, Identità future, Principi di parentela, Vita e morte…). L’oggetto di indagine, in fondo, è la propria identità.
Sospesi in una zona liminale tra la vita adulta che la società si aspetterebbe e quella che in effetti stanno già vivendo, Asya e Manu cercano di capire chi sono e soprattutto chi diventeranno. La ricerca di un appartamento – fragile motore della trama – si trasforma nella ricerca di un modo di stare al mondo. Sbirciando negli appartamenti visitati, e quindi nelle vite altrui, provano a immaginarsi in altri panni. Non è solo questione di trovare un tetto, ma di rispondere a una domanda più profonda: che cosa significa davvero mettere radici? Ogni visita diventa un atto di pura immaginazione: “acrobazie del pensiero, il tentativo di lanciarci in avanti pur avendo solo un’idea vaga di dove vogliamo atterrare”.
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Intanto, nei Paesi d’origine la vita continua: la nonna di Asya si ammala, i nipoti crescono, il fratello di Manu prende decisioni sbagliate. Loro non possono che osservare da lontano, sentendosi progressivamente estranei persino alla propria famiglia. Le visite dei genitori in città si trasformano in rappresentazioni dolorose, vissute “nell’angoscia che non ci siamo sforzati abbastanza, che le nostre vite sembrino bizzarre ai loro occhi, e che questi giorni da turisti siano tutto quello che ci resta da condividere”.
Per Asya diventa allora fondamentale costruire nuove forme di parentela, una rete di sostegno che renda la città meno ostile. Attorno alla coppia orbitano personaggi come Ravi, anch’egli expat e quindi capace di comprenderne la sensazione di costante precarietà; Lena, l’unica amica nata in città; l’anziana e insieme fanciullesca Tereza, vicina di casa e compagna di reading poetici.
Altrettanto essenziale è la creazione di rituali propri: non importa se privi di tradizione, basta che siano loro, capaci di offrire una parvenza di fondamenta. Asya parte da una domanda semplice ma decisiva: come voglio essere nel mondo? Con quali gesti e oggetti posso costruire una casa? Nascono così piccole liturgie: la colazione condivisa, le pietre raccolte in strada, una giacca di velluto verde che diventa una specie di totem.
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“La vita quotidiana è una storia difficile da raccontare“, ammette a un certo punto la narratrice. Eppure è proprio questa la sfida di Savaş: usare la narrativa come lente d’ingrandimento sulle minime tensioni, gli attriti sottili, i piaceri silenziosi che ci plasmano. “La lenta e pigra decomposizione di una giornata” è ciò che Asya tenta di catturare nelle sue riprese al parco, convinta che la vera eccezionalità risieda nell’insignificanza. Nel seguirne lo sguardo, ci accorgiamo che anche le vite più ordinarie contengono dubbi, paure e desideri universali. “Ho cominciato a capire”, riflette Asya a proposito dei suoi filmati, “che c’è un solo modo di vivere in quella moltitudine di forme, un solo modo di avanzare nelle fugaci ore di una giornata”.
Con una prosa essenziale e limpida, a tratti ironica e sempre misurata, Savaş accompagna i suoi personaggi in questa indagine sull’abitare. Là dove il tono sembra distaccato, quasi clinico, affiorano invece malinconia e delicatezza, capaci di trasformare ogni dettaglio nel frammento di un mosaico esistenziale. Gli antropologi è un romanzo che restituisce la vita nella sua essenza più minuta, celebrando la grazia discreta di ciò che, di solito, non sembra degno di essere raccontato.
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