Decano del giornalismo musicale americano, osservatore implacabile della cultura contemporanea, nel saggio “Storia del rock in dieci canzoni” Greil Marcus porta alla luce i fili sottili che legano alcuni brani, come “Transmission” dei Joy Division…

È un bel personaggio, Greil Marcus: decano del giornalismo musicale americano, ha visto nascere e crescere Rolling Stone, ma nel corso degli anni si è affermato anche come ottimo critico letterario, cronista politico di notevole lucidità e osservatore implacabile della cultura contemporanea. Lontano da tutte le possibili mistiche relative ai “grandi vecchi” e ai “classici intramontabili”, Marcus è un uomo determinato a mantenere viva la propria curiosità, che sceglie di stare nel mondo e di mettersi in discussione, e che nella musica, suo primo amore, trova una fonte di scoperte continue.

storia del rock

Leggere Storia del rock in dieci canzoni (Il Saggiatore) significa osservare un autore al massimo del suo virtuosismo, per metà acrobata e per metà incantatore di serpenti, dotato di un controllo sovrumano del linguaggio con cui scrive (onore al merito della traduttrice Sara Reggiani: non dev’essere stato semplice arrivare a una resa italiana così chiara e così potente).

Greil Marcus

Marcus non desidera tracciare una storia comprensiva di un genere musicale che cambia e riemerge nonostante ne venga decretata la fine quasi ogni anno. Sceglie invece di muoversi attraverso una serie di canzoni, portando alla luce i fili sottili che le legano attraverso il tempo e lo spazio, i molti interpreti che hanno dato loro voce, le persone che a distanza di anni le hanno riscoperte come se fossero del tutto nuove.

Un capitolo intero è dedicato a Shake Some Action, un pezzo sopravvissuto a tutte le band che l’hanno suonato, e che risulta subito familiare a chiunque lo ascolta solo per la purezza e l’energia della canzone. Un altro, To Know Him Is To Love Him, unisce i tristi destini del produttore e compositore Phil Spector, che per primo lo incise nel 1958, e di Amy Winehouse che lo cantò nel 2006, facendolo diventare “suo” al pari delle canzoni che lei scriveva e interpretava.

Certo, alcune delle scelte di Marcus possono lasciare perplessi, non perché le canzoni di turno siano brutte o insignificanti, ma per il criterio con cui vengono stabiliti dei legami: il classico dei Joy Division Transmission è molto ben raccontato attraverso le vicende del gruppo, dai primi tentativi di trovare un sound fino alla morte prematura del cantante Ian Curtis, ma poi torna fuori attraverso il film dedicato a Curtis molti anni più tardi, Control, e a un altro film minore interpretato dallo stesso attore che con la storia dei Joy Division ha in comune solo la tristezza del paesaggio umano.

Questo capitolo, per quanto scritto con una scioltezza clamorosa, si chiude su una nota del genere “Inghilterra di provincia = alienazione e sconforto ieri, oggi e domani”. A tratti il gioco diventa un po’ faticoso, insomma. Del resto è assolutamente fisiologico che davanti a un libro simile alcune parti sembrino meno a fuoco di altre, o che il gusto personale di un singolo lettore crei un momentaneo distacco rispetto al testo.

A rimanere costante è la voce dell’autore, quell’uno-due di passione e competenza che Marcus porta sulla pagina: è capace di stenderti con un fiume di osservazioni precise su come, in concreto, si producevano canzoni di successo negli anni Cinquanta e Sessanta della Motown Records e su come nel tempo è cambiata l’industria che una volta fabbricava fenomeni senza apparente fatica. E se l’abilità tecnica di Marcus è capace di reggere nell’arco di tutto il libro, a restare impresso, alla fine, è lo spirito per cui il rock continua a nascere, morire e tornare in vita. Il bisogno di andare in scena, di affermarsi e insieme di dimenticare se stessi che collega musicisti lontanissimi tra loro.

Storia del rock in dieci canzoni non è un romanzo, ma ubbidisce al primo grande dovere della letteratura: farti sentire vivo.


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